• Una storia di formaggi, vini e qualità – Borgiattino Formaggi a Torino

    Sotto i portici di corso Vinzaglio, nel cuore di Torino, potete scoprire  Borgiattino, una bottega storica specializzata in ‘una storia di formaggi, vini e qualità‘, come leggiamo sul sito. Il primo incontro è avvenuto un sabato mattina di qualche mese fa in occasione di una degustazione di mozzarella di bufala piemontese e di quella campana. Avvolta da profumi e sapori sono stata accolta dal titolare, il sig. Luciano Guidotti che, subentrato al sig. Borgiattino in quest’avventura nella gastronomia di alta qualità, ha preservato il brand storico

    La storia della bottega è molto più complessa e affascinante di quello che possiamo immaginare. Siamo negli anni ’20 quando in una Torino laboriosa Carlo Borgiattino avvia l’attività che lascia poi ai due figli, una tradizione familiare, una vita casa e bottega che è arrivata fino a noi.

    Quello che mi ha colpito non è tanto la varietà dei prodotti esposti, quanto il desiderio dei titolari di lasciare un segno, di emozionare, di diffondere cultura e una ricerca sapiente di prodotti da proporre ad un pubblico esperto ed attento alla qualità. Proprio a tal fine vengono organizzate le degustazioni e tour gastronomici per visitare le aree di produzione.

    Al primo incontro sono seguite altre visite nei mesi successivi fino al 17 settembre scorso, giorno della  premiazione dei Maestri del Gusto di Torino e provincia 2019-2020 a Torino Incontra. Proprio in quest’occasione, in attesa che Luciano ricevesse il premio, abbiamo fatto una breve intervista.

     

    Buongiorno Luciano quando sono venuta in bottega mi ha mostrato la maniglia con le iniziali FB, mi racconta la storia legata a queste iniziali?

    Una storia curiosa che è legata alle vicende familiari dei Borgiattino. Il negozio nacque nel 1927 dall’idea di Carlo Borgiattino che ebbe due figli: Candido (detto Dino) e Roberto. Quando si ritirò Carlo Borgiattino subentrarono i due figli ed ecco la ragione delle iniziali ‘FB’ ossia  ‘Fratelli Borgiattino’. Dopo pochi anni, tuttavia, i due fratelli non andarono d’accordo e si divisero, pur restando nello stesso settore. Dino mantenne il negozio originale in corso Vinzaglio, portando avanti una tradizione che risale a 90 anni fa e Roberto aprì un negozio in via Accademia Albertina. La targa mutò quindi di significato da ‘Fratelli Borgiattino’ a ‘Formaggi Borgiattino. Gli anni passarono, ma a causa della difficoltà connesse all’introduzione della ZTL, Roberto decise di ritornare nella bottega del padre e quindi i due fratelli si riunirono.

    Come si è scoperto la passione per i prodotti caseari, dal momento che ha un’estrazione di imprenditore in settore totalmente differente?

    Anche questa è una storia interessante, perché è legata alla mia curiosità innata e alla mia passione per i formaggi. Provengo dal settore elettromeccanico che resta la mia attività professionale primaria, ma sono attratto da settori merceologici diversi.

    Conoscevo Dino da quando era rimasto titolare unico del negozio e quando ebbe qualche problema di salute circa 15 anni fa decisi di rilevare l’attività. Assunsi anche le due commesse ‘storiche’ che collaboravano da 25 anni. All’inizio fu solo un hobby e il desiderio di avvicinarmi ad un mondo che da sempre mi affascinava, ma negli anni è diventata una seconda attività. Nella ricerca dei collaboratori pongo l’accento sulla curiosità, sul desiderio di conoscere ed apprendere la storia dei formaggi.

    Borgiattino è conosciuto ed apprezzato per la scelta di accurata dei piccoli produttori con produzioni limitate dalla fontina d’alpeggio al Plaisentif,  detto formaggio delle viole, tipico dell’alta Val Chisone e dell’alta Val di Susa, che si vende dalla terza domenica di settembre ed è disponibile solo fino a gennaio, al massimo a febbraio fino ad arrivare al Bettelmatt, il numero uno dei formaggi italiani. Piccole quantità per palati esperti. 

    Qualche aneddoto legato alla bottega? 

    I clienti mi riportano che Carlo Borgiattino spesso facesse finta di parlare al telefono con l’Avvocato Agnelli. Nessuno sa se fosse vero o meno, tanto che è diventata ormai una leggenda. Quando si entrava in bottega Carlo era al telefono voltato di spalle e pronunciava queste parole: <<Sì senatore, d’accordo senatore, domani le mando tutto quello che ha ordinato>>.

    Sappiamo che è sempre più forte l’attenzione al prodotto di qualità ed alla conoscenza della filiera. Come sono cambiati i gusti dei consumatori negli ultimi anni?

    In 15 anni ho notato che è cresciuta l’attenzione del consumatore verso la provenienza e la produzione dei formaggi.  Proprio per andare incontro a queste esigenze ho creato delle schede tecniche per ogni prodotto per diffondere cultura, oltre a fornire informazioni dettagliate nella bottega.

    Se il cliente, ad esempio, vuole approfondire le differenze tra la Fontina d’Alpeggio e di latteria, mentre lo serviamo lo acculturiamo. Ecco un esempio delle informazioni che vengono fornite di volta in volta. Ogni forma è numerata e classificata con un simbolo del CTF, acronimo che significa controllo tutela fontina. La Fontina d’Alpeggio deve avere un numero inferiore a 500 altrimenti è di latteria. Dal punto di vista organolettico ed economico si acquistano e degustano due formaggi completamente differenti. La Fontina d’Alpeggio è prodotta a 1800-2000 metri e le mucche si cibano di fiori ed erba dei prati, mentre per la Fontina di latteria l’alimentazione è basata sul fieno, Sono particolarmente esperto di Fontina, perché personalmente cerco gli alpeggi in Vallée. Faccio parte anche della giuria preposta a nominare ogni anno la migliore Fontina d’Alpeggio della Valle d’Aosta. Viene fatta una selezione tra 500 tipologie di Fontina arrivando a sceglierne solo 10 tipi tra cui verrà eletta la migliore dell’annata. Ogni produzione è diversa dall’altra in base all’alimentazione, al momento dell’anno in cui viene prodotto il latte.

    Il rapporto con il cliente è quello che distingue la piccola bottega dalla grande distribuzione. Non solo vendita, ma cultura di prodotto. A tal fine ho organizzato alcuni anni fa anche dei tour eno-gastronomici in Valle d’Aosta per portare i miei clienti a vedere i luoghi di produzione. Ad esempio, nel 2012 abbiamo visitato un’antica ex miniera di rame in Valpelline vicino ad Aosta. Si tratta di un centro di raccolta e stagionatura della fontina, capace di ospitare fino a 60.000 forme con annesso museo e degustazione di prodotto e vino.  Abbiamo poi proseguito la vista anche al castello di Issogne, che ha ispirato il Borgo Medioevale del Castello del Valentino di Torino. Quindi abbiamo unito varie forme d’arte e cultura.

    Ho rivisto più volte Luciano e ho scoperto che è una persona veramente eclettica con la passione per l’arte, la cultura e la scrittura. Ci ha regalato anche un suo racconto ispirato alla vita d’alpeggio, una storia che fa riscoprire i valori d’altri tempi, ricca di fascino e di modernità al tempo stesso.

    Buona lettura!

    Miele, formaggio e Buccia

     

    “Io!?”

    Quasi un urlo, risuonò per l’ampia stalla!  Sembrava che riassumesse in se orrore, sorpresa e in fondo anche divertimento per la richiesta, anzi l’ordine che le era stato dato.

     “Io!?” ripeté quasi ridendo.

     “Nonna, ma stai scherzando! Come ti viene in mente! Mai e poi mai farò una cosa del genere!”

     Mentre sorridendo rispondeva così alla sua adorata nonna, le venne da pensare a cosa avrebbero detto i suoi compagni di liceo se l’avessero vista fare quello che sua nonna le aveva chiesto. Chiesto! La nonna era adorabile in tutto e per tutto, compreso il suo carattere burbero, brontolone con un fondo di intelligente ironia. La nonna non chiedeva mai, ordinava. Le venne in mente il suo povero nonno; anche lui aveva ubbidito alla nonna per tutta la sua vita, e lo aveva fatto con tutto l’amore che la nonna meritava. Dicevano che lei era il ritratto della nonna da giovane.

    La nonna. In gioventù era stata  bellissima. Così si vedeva nelle fotografie.  Un corpo flessuoso e perfetto, con un volto delicato in cui spiccavano due occhi azzurri come il cielo di primo mattino, su all’alpeggio. Lunghi capelli neri, tanti e riccioluti. Adesso seduta su uno sgabello accanto alla sua mucca, stava mungendo con la stessa dolcezza con cui avrebbe accarezzato un bimbo.  Il suo culone tracimava dallo sgabello! Era invecchiata, appesantita dal lavoro in montagna, dalla cura della sua malga.  Una volta serviva solo per abitazione d’estate e rifugio di pastori, ma già da suo suocero era stata trasformata in una grande casa, poco sotto Pila. La nonna ripeté l’ordine, nel suo dialetto piemontese-aostano

    ” Siediti qui e impara a mungere!”

    Imperativa,  guardando di sotto in sù la sua bella nipote. Certo le parve molto appropriato il soprannome con cui l’avevano chiamata i suoi compagni di scuola , i suoi amici. Ormai anche in casa la chiamavano tutti così, quella gagna. Ed infatti per i suoi diciannove anni aveva un bellissimo corpo, alta e piena di armonia: dalla nonna aveva preso il colore azzurro degli occhi, che in più esprimevano una dolcezza mista a determinazione e carattere. Il volto, dall’ovale perfetto, era incorniciato da una massa di capelli ricci e biondissimi. “Miele” la chiamavano tutti.

    “Ohi! Miele, non avresti potuto vestirti prima di scendere nella stalla!”

    “Che dici, nonna! Sono vestita!”

    Si, vestita! Pensò la nonna. “ Che ti sembra di essere vestita con quelle mutande blu e la pancia di fuori?!”

    “ Mutande blu?! Nonna sono degli shorts di jeans! Ed ho sopra una camicetta corta…siamo d’estate!”

    “se io fossi venuta così bardata nella stalla e ci fosse stato tuo nonno, mi avrebbe mangiata viva!”

    “Aveva un grande appetito, il nonno!”

    “Vieni qui, donna nuda, che t’insegno a mungere! Almeno fai qualcosa di buono”

    Miele si sedette sulla paglia, di fronte alla nonna, guardandola con affetto e ammirazione. Brava la sua vecchietta! E che sveltezza nel muoversi, che agilità!

    “Nonna, ma come fai ad essere così brava. Non dovresti stancarti troppo, non è che sei una ragazzina!”

    “Perché no?! Intanto io non vado in giro in mutande blu come fai te! Sono ben coperta e attrezzata! E poi se non lo tiro giù io il latte, e non lo lavoro…il formaggio che hai mangiato ieri sera, ti era piaciuto o no?!

    Miele ascoltava la nonna immaginandola ragazza quando con suo marito saliva alla malga per il pascolo. Sembrava che fossero passati secoli da allora, e la nonna ripeteva giorno dietro giorno  gli stessi gesti: Il pascolo, la stalla, la mungitura, il latte, il formaggio. Come se le vite degli altri fossero state nuvole passeggere. Si chiese se la nonna aveva avuto dalla vita tutto ciò che aveva desiderato avere. Al liceo avevano più volte affrontato il tema della felicità, senza mai fare il punto di cosa significasse essere felici.

    “Nonna, tu sei felice?”

     E subito dopo Miele si pentì d’essersi fatta sfuggire di bocca questa domanda. Spostando il secchio del latte l’anziana e grossa donna si agitò sul panchetto facendolo scricchiolare pericolosamente. Guardò sorridendo la nipote e la vide in tutta la sua smagliante giovinezza.

    “Non mi sono mai preoccupata di esserlo! Posso però dirti che sono stata tanto infelice ed è stato quando è morto tuo nonno! Era in grado di fare uno dei più gustosi formaggi della vallata, Faceva una fontina, a pasta semicotta con il giusto grasso, e poi dopo tre mesi ti leccavi le dita!!”

    “Formaggi?!-esclamò Miele- ma non rimpiangerai il nonno solo per i   formaggi?!”

    “Miele mia, che ne sai te di quanto bisogna essere bravi per fare bene ciò che si fa! Tuo nonno, con me faceva tutto benissimo! Anche il formaggio. Lui aveva imparato da suo padre, da suo nonno e per generazioni non hanno fatto nient’altro che fare formaggi. E te, Miele mia, con le tue mutande blu che ne sai di come si fanno i formaggi?”

    “A scuola mi hanno insegnato tutto sul formaggio! I latini lo chiamavano formaticum, e si dice che il primo caciaro sia stato un pastore che si chiamava Aristeo,  e che era figlio di Apollo e di una ninfa che si chiamava Cirene.!”

    “Ecco perché tuo padre ti ha mandato a scuola! Ma non era meglio se ti avesse insegnato a mungere, e poi professoressa che ne sai dei formaggi?!”

    “ Sai nonna che ho tradotto dal greco un passo di Aristotele dove nella sua Storia degli animali racconta di come i pastori siciliani facevano il formaggio! E poi ne ho letto sul Columella che descriveva nel primo secolo dopo Cristo, nel suo De Rustica, la fabbricazione del formaggio. Persino Plinio il vecchio riporta un lungo elenco di formaggi napoletani”

    “Si, “i napuli” ora sanno fare anche i formaggi!”

    “Chi parla male dei “napuli” ?

    Una voce profonda e giovane s’intromise tra le due donne. Sulla porta apparve un giovane, alto quasi due metri, rosso fuoco di capelli.  Con la propria mole chiudeva quasi del tutto la porta della stalla.

    “Buon giorno nonna!”

    “ Alfredino!, il mio dottorino preferito, nonostante sia napoletano- esclamò la nonna- entra che così conosci Miele! Accidenti a te! Ma lo sai che ci hai fatto prendere una spavento con quel tuo vocione!”

    Miele fu costretta ad alzare il viso fino a scorgere nella penombra il volto di questo ragazzone, e si ritrovò la sua piccola mano stritolata nella mano di lui. Pensò che non aveva mai visto un ragazzo così bello e così rosso di capelli, con splendidi occhi verdi. Lì per lì le venne un po’ d’affanno.

    “E così tu saresti la nipotina cittadina tanto bravina a scuola! Ma è vero che ti chiami Miele?!”

    Alfredo non parlava, tuonava! Miele s’infastidì per quest’approccio poco gentile e non seppe cosa rispondere. Poi riprese fiato e chiese con disinvoltura se lui lo chiamavano Arancio, visti i suoi colori.

    “Arancio, ma chi te l’ha detto!? Persino in ospedale i colleghi mi ci chiamano così! E poi siccome non vado mai via dai reparti dopo aver visitato i malati, qualcuno mi chiama anche Buccia, il dr Buccia. E questo perché mi appassiono e cerco di star loro vicino finché posso”

    Quasi ignorandoli  la nonna  riprese a mungere; i due, come se Eros li avesse  folgorati, cominciarono una lunga chiacchierata sulla loro scuola, su cosa lei si aspettava dalla vita, sul futuro dei suoi studi, mentre Buccia le raccontava di come avrebbe voluto specializzarsi e poi lavorare a Torino, insomma….. non la finivano più.

    La nonna li guardava sorridendo. Da brava vecchia montanara, anzi quasi da antica malgara presagi il futuro, pensando che il miele con una buccia d’arancio su una fetta di fontina fosse  un piatto divino che le avrebbe dato tanta felicità!!

     

  • Food experience e botteghe a ‘Passeggiando con gusto’

    In una mattina uggiosa di fine febbraio l’appuntamento per scoprire botteghe gourmet piemotesi e vivere una food experience è sotto i portici di Piazza Statuto angolo via Cibrario. Arriviamo al press tour alla spicciolata imbacuccati in sciarpe e cappelli, a causa della pioggia battente e del freddo che ancora non fa presagire l’arrivo della primavera. Sabato mattina è il momento dedicato ai mercati rionali e alla spesa nelle botteghe. Torino è ricca di realtà gourmet, di mastri artigiani che hanno fatto del food una vera e propria cultura. Spesso, tuttavia, le eccellenze presenti nella nostra città sono conosciute da pochi eletti per quella sabaudità e ritrosia a esporsi e a comunicare. Ricordo l’espressione non mi oso” , usata frequentemente dai miei nonni materni,  piemontesi doc. Seppur non corretta dal punto di vista grammaticale, ben esprimeva il nostro carattere schivo e portato a non mettersi troppo in evidenza, non osare, appunto.

    Accompagnati dai rappresentanti della Camera di Commercio di Torino e del Festival del giornalismo alimentare, siamo un gruppo eterogeneo di giornalisti  e food blogger di Bologna, Forlì, Roma e Torino. Sono l’unica storyteller, ma mi sento pienamente ‘a casa’, perché le narrazioni sono il filo conduttore della giornata.

    Tra i tanti tour proposti dal Festival nel territorio piemontese e valdostano ho scelto ‘Passeggiando con gusto’ proprio per andare alla ricerca di botteghe, che è l’anima del mio progetto. Ho scoperto realtà ricche di storie e di fascino. Ma partiamo dalla storia del quartiere dove prende il via la visita.

    Porzione all’angolo con via Cibrario. Fotografia di Davide Rolfo, 2012. © MuseoTorino

    San Donato è un quartiere storico di Torino che prende il nome dalla prima Chiesa di San Donato edificata grazie ad alcune organizzazioni religiose stabilite nell’area fin dal XIV secolo. Collocato ai confini delle antiche fortificazioni cittadine aveva una vocazione agricola durante il XVII e il XVIII secolo, perché il canale di Torino forniva un sistema d’irrigazione ideale ed energia a basso costo. Vi si stabilirono scuderie con carri e cavalli, molti artigiani e nacquero le prime concerie cittadine per cui dalla seconda metà del Settecento si trasformò in area industriale.

    ‘Con il trasferimento della capitale da Torino a Firenze il Governo d’Italia stanziò a favore di Torino una rendita annua di 300.000 Lire, che venne utilizzata per la costruzione di un nuovo canale per alimentare le industrie cittadine che si sviluppavano sempre più numerose.
    Questi eventi portarono all’incremento dello sviluppo industriale del Borgo con l’installazione di una quindicina di fabbriche principalmente rivolte alla produzione di birra, cioccolato e alla concia delle pelli. ‘ (Fonte sito del Museo Torino) 

    A pochi passi da noi si trova via  Balbis dove ‘nel 1865 i produttori  dolciari Talmone e Caffarel– Prochet inventarono il giandujotto, cioccolatino torinese noto a livello internazionale e in corso Regina Margherita angolo via Vicenza, era ubicato il primo stabilimento della Pastiglie Leone, Nella zona sorgevano anche “La Torinese”, produttore di  panettoni e alcuni birrifici storici, “Bosio & Caratsch” di corso Principe Oddone 81 e la birra Metzger di via S. Donato,68.’ Sempre nel sito del Museo Torino  potete approfondire la storia della città dell’800. 

    Il tour prevede più tappe per conoscere prodotti tipici del nostro territorio dal pane alla carne, dal cioccolato al gelato e degustazioni anche di birra artigianale. I produttori che incontriamo fanno parte dei “Maestri del Gusto di Torino e provincia” , progetto nato nel 2002 grazie alla Camera di commercio di Torino, al suo Laboratorio Chimico e a Slow Food e che oggi annovera più di 182 membri provenienti da 26 categorie. A novembre 2017 è partita anche l’iniziativa #MaestriDigital  che aiuta i produttori a comunicare sui social media.

    Come ci spiega Daniela Fenoglio della Camera di Commercio, per avere il riconoscimento di Maestro del gusto che ha cadenza biennale, i produttori devono rispettare i requisiti di legge sull’igiene e sicurezza dei prodotti alimentari e ottenere il parere positivo dal Laboratorio Chimico.

    Ecco la mappa del tour realizzata su Google maps (vedi link

    :

    Percorriamo via Cibrario e ci fermiamo al numero 31 al Panificio Avetta  dove siamo accolti da Riccardo Avetta, terza generazione di esperti panificatori. La passione per la panificazione nasce infatti nel lontano 1929 in Valle d’Aosta, grazie a Riccardo Avetta e poi prosegue a Torino nel 1957 ad opera di Tullio Avetta, padre di Riccardo. Durante la visita ci vengono fornite informazioni sulla macinazione a pietra, sulle farine di tradizione antica così pregiate, ma difficili da trattare e sulla lievitazione di 30 ore. La degustazione di focaccine e pizzette appena sfornate ci fa iniziare la giornata in modo gourmet.

    Al numero 61 troviamo la Macelleria Giampaolo Crȕ dove potete trovare carne bovina di razza piemontese di alta qualità. Nata nel 1983 si è reinventata con un prodotto innovativo, il Crȕ (in piemontese crudo), un sushi con riso pregiato della famiglia Rondolino e carne cruda che è simile al ben noto prodotto giapponese. La sig.ra Emiliana Marras, moglie del signor Giampaolo ha raccontato com’è nata l’idea del sushi di carne e i progetti futuri dell’azienda familiare. Facciamo un assaggio di carne cruda accompagnato da un buon bicchiere di bollicine.

    La 3a tappa del tour ci porta in via Jacopo Durandi 13 alla Piazza dei Mestieri, un centro che unisce giovani e maestri artigiani per trasferire competenze e passioni. Un progetto educativo che si è sviluppato negli edifici storici delle Concerie Fiorio della Torino metà Ottocento. Tra le molteplici proposte della Piazza degustiamo il cioccolato artigianale (Le delizie della Piazza) e la birra artigianale (Le birre della Piazza). Grazie allo chef Maurizio Camilli scopriamo che nel 2007 all’interno della Piazza nasceva un vero e proprio birrificio, proseguendo la vocazione di Torino che nell’ 800 contendeva il primato di produzione della birra addirittura a Monaco di Baviera. Alla metà dell’800 infatti nella zona erano attivi ca. 180 produttori e avevano creato una birra denominata ‘Chellerina’ dal nome delle belle cameriere bionde che offrivano la birra nei locali. Negli stessi edifici dove oggi sorge la Piazza dei Mestieri erano ubicati due dei più antichi birrifici torinesi:  Bosio & Caratsch, il primo nato in Italia, e Metzger, che sfruttavano l’acqua pura del canale Torino e vennero premiati con la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Torino nel 1898.

    Per scoprire l’ultima tappa del tour torniamo in via Cibrario e ci fermiamo al numero 50 alla Gelateria La Tosca che nasce da una lunga tradizione di mastri gelatai. Il signor Riccardo con il fratello, anch’egli gelatiere a Torino, fa parte della seconda generazione, perché i genitori erano nel mercato del gelato dal oltre trent’anni. Un sistema di refrigerazione a vasche rotanti per una temperatura più uniforme e prodotti freschi locali di alta qualità selezionati con cura nel territorio garantiscono un’esperienza golosa. Oltre alle creme e i gusti inventati dal maestro gelataio assaggiamo anche i gelati gastronomici che ci incuriosiscono. Il gelato al Grana con flavour di sedano accarezza il palato! Il signor Riccardo ci racconta che negli ultimi 20 anni sono cambiati i gusti alimentari, ma è cresciuta l’attenzione del consumatore non solo verso la lista degli ingredienti, ma anche le provenienze.

    Il press tour si conclude con un pranzo gourmet presso Eataly Lingotto dove scopriamo il progetto Menu for Change, la prima campagna internazionale di Slowfood che lega il cambiamento climatico alla produzione e al consumo di cibo.

    Come ho raccontato questa food experience?

    A parte questo articolo nella sezione ‘Alla ricerca di storie’ e il live tweeting su Twitter durante lo svolgimento della giornata ho creato alcuni racconti visual declinati su tool e platform per comunicare sui social o embeddare sul sito. Vediamoli insieme:

    • Steller uno sfogliabile per narrare attraverso testo + foto + video ad un pubblico internazionale, oltre che nazionale (ecco il link https://steller.co/s/7z6jpZSsBR9). Trovate molti appassionati di food, oltre a food blogger internazionali.
    • Series di Medium sfogliabile all’interno della piattaforma di blogging con utilizzo di testo e foto. Ho creato due storie distinte (tour e pranzo a Eataly Lingotto e qui i link: https://medium.com/series/9cf584749a3e e https://medium.com/series/2df28e544b53)
    • Sutori una piattaforma di narrazione che consente di aggregare contenuti in alberatura. (ecco il link https://www.sutori.com/story/un-press-tour-a-torino#.Wp_FGlmgIaE.google_plusone_share) Sto testando questa piattaforma e cercando di capire come utilizzarla al meglio.

     

    Di seguito una raccolta di scatti del press tour.

     

     

     

  • Il fascino di un’epoca – Incontro con Silvio Gaspardo

    Durante un viaggio a Pordenone un caro amico, Gianni Barbon del coworking Mod-o di Cordenons, mi ha fatto conoscere una bottega d’epoca di gran fascino. Fin dal 1946 Gaspardo ha vestito tante generazioni di pordenonesi, accompagnandoli nei momenti informali e in quelli più importanti della vita. Moda maschile di alto livello e qualità dall’intimo alle camicie e alle cravatte di ogni foggia e colore.

    Sotto i portici del centro il negozio conserva la porta originale del 1951 e due grandi vetrine che accolgono i clienti.  Il racconto prende spunto proprio dalla ristrutturazione che Silvio, il proprietario, mi narra con dovizia di particolari. Scopro allora che i lavori sono stati seguiti proprio da Gianni che si occupava con la moglie di quest’attività e che la scelta di mantenere l’entrata originale è frutto di una cura dei particolari, del desiderio di mantenere inalterata la memoria del passato.

    Il passato è una storia di famiglia che vede il giovanissimo Silvio entrare in bottega nei primi anni ’70 all’inizio dell’estate in cui era stato espulso dalla scuola media.

    Non voglio vederti a spasso tutta l’estate. Da lunedì verrai in negozio a collaborare e in autunno, oltre a lavorare, ti iscriverai alla scuola serale per prendere la licenza media.

    Il padre, il signor Umberto, decide d’investire sul figlio che a quell’epoca era un po’ alternativo con i capelli lunghi e le collanine e di tramandare la sua passione per la moda maschile che durava già da molti anni.

    Aveva infatti iniziato a lavorare presso alcuni negozi d’abbigliamento della  città tra le due guerre e dopo la liberazione aveva deciso di mettersi in proprio, aprendo l’attività nella Contrada dove si trova ancora oggi. 

    Silvio prosegue l’attività familiare insieme alla moglie e festeggia nel 2016 i settanta anni del negozio, traguardo a cui dedica il libro “E’ finita un’epoca- la mia vita da commerciante“.

    Una personalità poliedrica, quella di Silvio, che oltre ad essere esperto di moda maschile, si avvicina dal 2007 ai cammini di lungo chilometraggio e alla scrittura tanto da pubblicare racconti, esperienze di viaggio (libri sul Cammino di Santiago) e  fiabe. Un commerciante- scrittore che è riuscito a mantenere ed esaltare i valori della famiglia, arricchendoli di nuovi stimoli e interessi.

    Il libro, di cui mi fa dono, non è una saga familiare, ma un viaggio nel tempo attraverso le ditte fornitrici e le storie dei loro rappresentanti,  le botteghe limitrofe al Gaspardo, i negozi che ‘si trovavano in corso’, una fotografia della Pordenone degli anni ’60-’70 attraverso gli occhi e i ricordi di Silvio.

    Ed ecco apparire il ritratto del sig. Viani della ditta Erredieci Cravatte di Milano che arrivava a bordo di una Ford color marrone

    Che passione ci metteva il signor Viani nel proporci la merce! Certo usciva dal negozio più che soddisfatto, visto che tra una linea e l’altra comperavamo almeno venti dozzine a stagione.

    oppure il signor Sinigallia dell’omonima Camiceria di Motta di Livenza che

    Vestito elegantemente all’ultima moda, arrivava con la sua bellissima Porsche blu

    I ritratti si susseguono e ci ritroviamo in un mondo fatto di gentilezza e di tradizioni, un mondo che non esiste quasi più se non nelle botteghe storiche che, a volte, appaiono fuori dal tempo. Come afferma Silvio nel libro si tende ad essere tutti omologati e grazie alla grande distribuzione e ai franchising a non distinguersi: tutti con le stesse vetrine, con gli stessi prodotti e con poca fantasia e creatività.  A proposito di tradizioni a pagina 53 scopriamo, ad esempio, che il sig. Umberto amava

    il giorno di San Sebastiano, 20 gennaio, in cui si raccoglievano le violette per regalarle alle donne del cuore e si raccomandava alla Fioreria Trentin per averle in negozio.

    Di grande fascino il capitolo n. VII che è dedicato ai ricordi di bottega, quando Silvio e il padre andavano a fare le vetrine di Natale e preparare gli addobbi alla sera dopo cena, quando allestivano le vetrine con fantasia e anticonformismo  e infine le frasi e ‘detti’ del padre Umberto che riecheggiano ancora nella bottega.

    Noi commercianti, dopo anni di esperienza con i clienti, diventiamo un poco psicologi.

     

     

     

    Fonte: “E’ finita un’epoca – La mia vita da commerciante” – autore Silvio Gaspardo – editore Libreria Al Segno – ottobre 2016

  • Intervista a Giovanni Tamburini

    Intervista a Giovanni Tamburini della salsamenteria Tamburini di Bologna

    Se parliamo di cibo e passiamo da ‘Bologna la Grassa’ la salsamenteria storica Tamburini, situata in via Caprarie, è tappa obbligata. Seduti nel bistrot attiguo alla bottega, sorseggiando un profumato bicchiere di lambrusco iniziamo a chiacchierare con Giovanni Tamburini e ci immergiamo nell’atmosfera di Bologna dei secoli scorsi. Sentiamo le voci del mercato che nell’800 sorgeva in questo angolo di città, vediamo gli addetti alla bottega che lavano le carni nel torrente vicino e che le appendono ai ganci ancora visibili sopra le nostre teste.

    All’improvviso un cliente della Corea ci interrompe, chiedendo una foto al nostro ospite e, come per magia, il passato e il presente si fondono senza più confini geografici. Dopo le foto all’interno ed all’esterno della bottega e la promessa di scriverci per mail, iniziamo l’intervista vera e propria.

    Prende vita una lunga narrazione con dettagli personali e professionali di questo ‘mastro’ bolognese, la cui passione e professione sono un tutt’uno con la sua vita e la storia della sua famiglia, tra le più antiche di Bologna.

    Mi parla subito dell’amicizia storica con Gabriele Cremonini con cui ha scritto il libro che mi regala ‘ Maiali si nasce salami si diventa’ edito da Pendragon. Cremonini era stato giornalista e narratore (scomparso nel 2015), aveva scritto per il teatro, la tv, la radio, la pubblicità e su quotidiani e periodici, aveva lavorato con Bibi Ballandi nell’organizzazione di eventi televisivi, per i varietà di Gianni Morandi, di Adriano Celentano, di Fiorello e stretto collaboratore di Lucio Dalla.

    Nell’intervista scoprirete un mondo di sapori, di arte e tradizione antica che abbiamo il dovere di tramandare alle generazioni future.

    Tamburini è un ‘cultore’ delle tradizioni di Bologna e se ne fa portavoce con il proprio figlio che ha ereditato quest’arte e con la Mutua Salsamentari 1876 di cui è stato presidente dal 1996 al 2013.

     

    Qual è la storia dei Tamburini e della bottega storica?

    “Sono bolognese e sono nato a centro metri da bottega storica che è attiva ormai da 3 generazioni.

    Dove sorge la bottega si teneva il mercato denominato Le Pescherie vecchie, il cui nome deriva dal consumo molto diffuso di pesce a Bologna (soprattutto cefalo) che arrivava in 48h da Chioggia lungo i canali che attraversavano tutta la città. Un canale era proprio vicino alla bottega ed era utilizzato per lavare le carni. “

    Come si legge nel libro ‘Maiali si nasce salami si diventa’: ‘Nella bottega di Tamburini di via Caprarie, a Bologna, si lavoravano 60 maiali al lunedì e 60 maiali al giovedì. Sembrava una baleniera: in 2 ore tutte le carni venivano tagliate per fare salami, mortadelle, cotechini. Sul limite del laboratorio stavano gli anemici clienti, in attesa di acquistare il cosiddetto quinto quarto, cioè tutte le carni rosse che venivano portate via in pochi minuti da persone che oggi verrebbero additate al minimo come vampiri.’ (pagg.71-72)

    La storia dei Tamburini è strettamente legata a quella della famiglia Benni, nobili bolognesi che nel 1860 circa erano proprietari della bottega e amministratori del patrimonio del Principe Baciocchi, marito di Elisa Bonaparte. A Bologna si contavano 200 salumifici nel 1885 e la mortadella era esportata in tutto il mondo.

    I fratelli Angelo e Ferdinando Tamburini, lavorarono presso la bottega dei Benni, da decenni punto di ritrovo dei gourmet dell’epoca finché nel 1932 rilevarono l’attività.

    Non ero ‘destinato a bottega’, perché mio padre era uno sposo tardivo e aveva un fratello, Angelo con 10 nipoti.

    La bottega era gestita da mio zio che amava vestirsi da sarti famosi, ma si sporcava le mani in azienda, da mio padre che, invece, potrebbe essere definito un viveur dei tempi e dalla zia Maria (rimasta signorina) che si occupava dell’amministrazione. Come ho detto, lo zio aveva 10 nipoti, ma nessuno aveva dimostrato l’attitudine a seguire le orme dei parenti ed entrare in bottega. Finito il servizio militare mi trovai con i genitori e zii più anziani e iniziai a dare una mano nella salsamenteria. Era l’inizio del 1973, poi i parenti si ritirarono e mi trovai da solo nella gestione dell’attività dal 1977.  Essendo stato in bottega nei primi 5 anni di vita, ho assimilato, senza volere, tutti i ‘saperi’ utili alla professione e mi sono mosso da subito con disinvoltura.”

    Laureato in Economico di Scienze Politiche con un occhio alla tradizione e un occhio alla cultura gastronomica inizia a studiare da zero la rinascita del mercato come attrazione con il supporto anche di Massimo Montanari ( docente ordinario di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna ed esperto mondiale di Storia dell’alimentazione)  e Giancarlo Roversi (giornalista e scrittore, fondatore e direttore di riviste di cultura, turismo ed enogastronomia, dedicato alla ristorazione e alla buona cucina) avevano studiato il rapporto del cibo con il territorio bolognese.

    Oltre a essere salsamentari la famiglia è stata anche di produttori?

    Siamo stati prima produttori e abbiamo la bottega storica da 3 generazioni. Dove è stato aperto il bistrot oltre i banchi frigo si vedono ancora i ganci dove appendevamo la carne e i salumi.”

    E’ cambiato il gusto/consumo dei consumatori che frequentano la bottega storica? 

    Possiamo definire i nostri consumatori ‘Esperti’. Già 100 anni fa servivamo tutta la società bolognese dai nobili e ricchi con consumo al taglio e meno abbienti con banco di 2a (cascami) comunque fresca perché nella bottega, oltre ai salumi, si vendeva anche la carne fresca. All’epoca non esisteva la larga distribuzione né tantomeno i frigoriferi. Il maiale veniva macellato d’inverno e i macellai veniva il 4 ottobre, festa del patrono San Petronio e andavano via per Pasqua.

    Sono cambiano i gusti ed il consumo, perché è cambiata la società (meno lavori manuali e quindi minore esigenza di consumare grandi quantitativi di carni e grasso per scaldarsi). Durante la guerra i tedeschi venivano a macellare a Bologna, ma non abbiamo mai avuto problemi. Dopo la guerra i prezzi erano abbastanza bassi, ma il guadagno era assicurato dai volumi e dal desiderio di uscire dalle ristrettezze del periodo.

    Veniamo agli anni 50 ed esattamente al ‘58 non esisteva la mensa nelle fabbriche e le donne avevano iniziato a lavorare. Lo zio è il primo a inventare la rosticceria – ‘piatti pronti per ingannare il marito’. Negli anni ‘80 della Milano da bere Tamburini organizza i primi catering con grandi buffet a domicilio. Nel 1995 ha avuto intuito di cogliere una nuova esigenza del mercato: le persone non andavano più a mangiare a casa, ma avevano necessità di un pranzo leggero da consumare nella pausa pranzo. Prende vita quindi l’idea del self service, ossia una rosticceria leggera per pausa pranzo. Dal 1985 iniziano anni di grave degrado urbano e si assiste alla diffusione sempre maggiore della grande distribuzione che pare segnare la fine delle botteghe storiche.”

     Dopo un periodo di crisi nel 2005 apprendiamo che Tamburini prende la licenza per aprire il bistrot che nel giro di un anno si afferma come un punto d’incontro della movida bolognese. Per il futuro ci sono già nuovi progetti come aprire una sala sotto alla bottega, locale adatto a cene e ad ospitare band musicali. (Tamburini suona in una band)

    Quali sono i personaggi storici passati dalla sua bottega?

    “Francis Ford Coppola che era venuto in città per conoscere il culatello.” 

    Foto appese in bottega raccontano della vita di Bologna e tra queste possiamo notare proprio quella citata da Tamburini.

    Eventi e momenti importanti della bottega?

    Natale Tamburini è stato per anni il momento clou con il coinvolgimento di un musicista che suonava dal vivo. 18 anni fa abbiamo creato il premio Ghost Buster di scoprire talenti del giallo. Ma sono solo degli esempi, potrei citarne molti di più…”

    Quali razze storiche sono ancora utilizzate oggi in Emilia? Sa perché era stata abbandonata la razza mora romagnola?

    Dagli anni ‘90 la congrega del buon salame si occupava di ricerca di razza estinte. Ancora nell’800 il maiale era della razza appenninica che era meno grassa. Tra le razze autoctone locali esisteva la ‘mora romagnola’ che ha rischiato di estinguersi a causa della bassa resa. Stesso destino aveva la ‘cinta senese’ che era piccolo e muscoloso con una specie di gilet nero del maiale (vedi dipinto Buongoverno nella sala comunale di Siena). Erano razze di sapore più intenso più simile al cinghiale con crescita lenta poco adatte all’allevamento intensivo.

    Si usava dire che all’epoca le famiglie ‘investissero’ in maiale, perché ogni famiglia allevava in proprio un maiale da macellare e produrre i salumi.  La ricchezza di Bologna era dovuta all’epoca non tanto all’allevamento del maiale quanto a quello del baco da seta. Aveva infatti mantenuto per molti anni il monopolio della produzione della seta in Europa e le costruzioni dei palazzi nobiliari erano legate proprio a questa ricchezza.

    Alla fine del secolo XVII esistevano a Bologna 119 mulini da seta. Partendo dai canali l’acqua raggiungeva le cantine di interi isolati e, sfruttando la pendenza del terreno, alimentava con una distribuzione a rete centinaia di ruote idrauliche di torcitoi e filatoi. Alla fine del secolo XVI la produzione serica dava da vivere a circa 24.000 persone su 60.000 abitanti e i prodotti venivano esportati sul grande mercato internazionale in Francia, nelle Fiandre, in Germania, in Inghilterra. Il prodotto che si afferma maggiormente a Bologna è il velo da seta. Di questo tessuto abbiamo numerose testimonianze tra cui una piccola galleria di dipinti. Un dipinto raffigurava una nobile con allacciato al capo un velo bianco tenuto fermo con un filo di ferro. Il velo di seta è bianco, sottile e trasparente. La seta era un prodotto molto costoso che si potevano permettere in pochi, solo i nobili, un esempio è la famiglia dei Bentivoglio. La supremazia della famiglia Bentivoglio iniziò nel 1401 dopo la cacciata del Legato Pontificio, quando Giovanni I Bentivoglio si alleò con i Visconti di Milano e divenne Signore di BolognaGonfaloniere di Giustizia e si attestò con Sante Bentivoglio  fino al 1462 e soprattutto con Giovanni II Bentivoglio fino al 1506.

    Con la cacciata dei Bentivoglio, Bologna rimase per quasi tre secoli (fino al termine del Settecento) stabilmente inglobata nello stato della Chiesa.

    Conosce leggende legate alle razze storiche? 

    C’è una leggenda legata alla mora. Si racconta che un malvagio possedesse una coppia di mora e non volesse farli accoppiare con lo scopo di far estinguere la razza. Gli americani con l’occupazione rapirono adamo ed eva e li portarono in America per cui i discendenti sono nati in America e la razza non si è estinta. 

    La legatura dei salumi con iuta era una pratica diffusa nell’800 e fino a quando? 

    La produzione è ancora in gran parte manuale. Importante il ruolo dell’uomo soprattutto nel riconoscere le carni. Un’altra fase che è ancora manuale è la legatura.

    Che cosa ci può dire in merito alle spezie utilizzate nella produzione dei salumi?

    La vicinanza di Venezia con i canali permetteva di avere spezie a prezzi interessanti, spezie che arrivavano dall’India. Si usavano comunque come base sale e pepe. Per reperire le spezie utili alla produzione della mortadella Tamburini si appoggiò all’azienda locale Sant’Unione. Ad esempio per la produzione del salame si usavano sale, pepe nero, vino bianco. Si mettevano in un canovaccio bagnato nel vino con aglio e poi strizzato. L’uso del pistacchio nella mortadella era stato introdotto solo da un produttore per andare incontro al gusto dell’Italia centrale. 

    Il tempo scorre veloce. Dal nostro viaggio nel passato abbiamo portato con noi la passione per le tradizioni più vere del nostro territorio. Il viaggio prosegue nella magia dei sapori con altri protagonisti del food. Seguiteci per scoprire insieme altre botteghe ed altri mestieri antichi in giro per l’Italia.

  • Incontro con Maurizia Castelli

    Una sfoglina per passione: Maurizia Castelli

    <<Ero destinata ad un lavoro d’ufficio e l’ho seguito per anni, poi a causa della crisi economica ho riscoperto le mie radici più vere, il mestiere che avevo nel sangue fin da bambina>>.

    Inizia così la storia di una sfoglina, Maurizia Castelli, che ho conosciuto all’inizio del progetto, grazie ad un amico comune. Non una bottega storica, ma una passione ritrovata per le tradizioni del territorio, per le proprie radici più profonde. I suoi genitori avevano una trattoria storica sulle colline di Bologna, dove da sempre la pasta si tira con il mattarello.

    Il destino di Maurizia non era inizialmente legato alla ristorazione tanto che ha lavorato per anni negli uffici di studi odontoiatrici, ma, a causa della crisi e grazie ad un’amica della nota famiglia bolognese, Chiari, ha iniziato a tirare la sfoglia come sfoglina stagionale.

    Il destino era in qualche modo già segnato: nel periodo di novembre appena prima delle vacanze natalizie si era liberata una posizione da sfoglina e così è  iniziata una nuova avventura che segnerà tutta la sua vita professionale.

    << Ho imparato lavorando fino a 12 e 14 uova alla volta con una sfoglia lunga quasi 2 metri. Io ero a l’oca, perché fino ad allora facevo la sfoglia in casa con le donne della mia famiglia, perché i tortellini sono nel nostro DNA>>.

    Verso aprile 2013 rileva un ramo d’azienda della famiglia Chiari e nasce ‘Bologna laboratorio del gusto‘, quindi una nuova svolta da dipendente a imprenditrice.

    <<Mi sono ritrovata imprenditrice al di là delle mie volontà.>> Si circonda di altre sfogline e in 7 donne affrontano il mercato.

    Il coraggio tutto femminile la porta a dedicarsi a questo nuovo lavoro che diventa la sua vita, riscoprendo le tradizioni più antiche.

    <<Per i tortellini usiamo la materia prima migliore secondo la ricetta originale e un pizzico di passione che è l’ingrediente segreto>>.

     

  • Incontro con Maria Luisa Pioli

    Un profumo di violetta a Parma: Color Viola 

    Vagando alla ricerca di botteghe storiche abbiamo fatto un incontro a dir poco magico a Parma.  Giornata caldissima nonostante sia ancora maggio stiamo seguendo le indicazioni per il Duomo quando notiamo una signora fuori da un negozio antichissimo in strada della Repubblica che sta muovendo lentamente una vetrina. Ci avviciniamo e scopriamo un universo narrativo che risale al  lontano 1923. Come è risaputo la violetta è il fiore simbolo della città di Parma ed era particolarmente cara alla Duchessa Maria Luigia d’Austria. Sul sito del Comune di Parma ci attendono maggiori dettagli su Maria Luigia, moglie di Napoleone e duchessa di Parma dal 1816 al 1848 e sulle origini del profumo.

    Duchessa Maria Luigia che amava molto questo fiore, in una delle pagine dei suoi tanti diari porta la data del 20 febbraio 1831 e la scritta “Souvenir de Parme malheureuse” sotto alcune violette essiccate.
    I moti di quell’anno avevano costretto la duchessa ad abbandonare la città amata, da qui l’espressione di tristezza. Parma ha ricambiato e ricambia l’amore della sua duchessa facendole avere ogni anno un mazzetto di violette sulla tomba nella Chiesa dei Cappuccini di Vienna, dov’è la cripta dei sepolcri imperiali degli Asburgo.

    Il profumo alla violetta fu ideato e lanciato nel 1870 da Lodovico Borsari che ha dato il nome ad una famosa ditta di profumi e che con la Collezione Borsari ha anche aperto nel 1990 il primo museo italiano della profumeria (ora chiuso).[…] oggi un profumo celebre e una deliziosa caramellina glassata. E’ diventata una componente della moda, della letteratura e dell’immaginario di Parma, e Marcel Proust, che a Parma non era mai stato, proprio per il riverbero nel ricordo della violetta e della dolcezza stendhaliana la immagina color malva.

    Il negozio Color Viola racconta una storia di signore imbellettate nei loro splendidi abiti, di cappellini all’ultima moda, di serate a teatro ad ascoltare l’opera, raccontandosi gli ultimi pettegolezzi.

    La boiserie interna è ancora dell’epoca e si può notare una particolarità davvero curiosa: la vetrina mobile che ruota dall’interno all’esterno diventando un espositore.

    Dalle saponetta, ai profumi, alle caramelline, tutti prodotti della bottega emanano il dolce profumo. La signora Maria Luisa Pioli – notate che il nome richiama quello della Duchessa – ci accoglie all’interno tra le storiche vetrine in legno e nel narrarci la storia ci mostra insegne storiche come quelle che vedete del 1900 ‘non si fa credito’ oppure la locandina appesa all’ingresso  del Teatro Reale di Parma per la prima rappresentazione dell’Opera Violetta di Giuseppe Verdi che si era tenuta l’8 giugno 1855.

    La passione per la violetta di Parma a fiore doppio è viva più che mai tanto che quest’anno, in occasione delle delebrazioni per i 2200 anni della fondazione della città, è stata restaurata la storica serra, risalente agli anni ’20, all’interno del Giardino Ducale di Parma. Il restauro è stato promosso dal Comune di Parma con il sostegno della Fondazione Cariparma e l’associazione culturale Parma Color Viola, da Su Repubblica.it .