• Gusto e passione in una scatola: My Cooking Box

    La passione per le storie, la cucina gourmet e il Made in Italy mi porta a conoscere diverse realtà italiane dalle botteghe storiche alle aziende familiari riscoperte dalle nuove generazioni alle idee innovative e startup che colpiscono la mia immaginazione. Ho scoperto il progetto My Cooking Box in occasione del Gammaforum, l’evento internazionale dell’imprenditoria giovanile e femminile che si è svolto lo scorso novembre a Milano.

    Come storyteller ho partecipato al social media team per raccontare il convegno e tra le dieci finaliste del premio Gammadonna 2018 ho conosciuto Chiara Rota, founder di My Cooking Box, che ha vinto il premio QVC Next per il prodotto più innovativo. Ho voluto approfondire e conoscere meglio la sua storia, fatta di coraggio, determinazione e tanta passione per il Made in Italy. Buona lettura!

    Chiara Rota vince il Premio QVC Next Award al Gammaforum 2018

    Buongiorno Chiara, la sua passione per la cucina è nata in famiglia? Ha qualche ricordo d’infanzia? 

    La mia passione per la cucina è iniziata ancora quando ero piccola ed è arrivata un po’ da mia nonna e un po’ da mia mamma. La prima riusciva a cucinare qualsiasi piatto con un’abilità e una semplicità invidiabile, la seconda invece non era così brava, ma si impegnava sempre per prepararmi qualcosa di gustoso. Quando sono andata via di casa e mi sono ritrovata a dover cucinare da sola, ho iniziato a mettere in pratica tutto quello che avevo imparato da loro e il mio amore per la cucina ha iniziato ad aumentare sempre di più, tanto che per me è diventato un vero e proprio lavoro.

    Dalla prima ricetta si è arrivati a 12 piatti (9 primi e 3 secondi). Qual è il criterio con cui vengono scelte le ricette della tradizione italiana? Le ricette sono tradizionali o rivisitate secondo l’interpretazione dei cuochi? 

    Per la realizzazione delle nostre ricette andiamo in cerca di realtà produttrici artigianali, dove la grande maestria del saper tramandare e fare è il fattore di qualità e garanzia del prodotto. Selezioniamo piccole aziende che lavorano le eccellenze del loro territorio, proprio per creare dei cofanetti che, come le nostre My Cooking Box, racchiudono una specialità regionale di alta qualità. Nella selezione degli ingredienti e nella creazione della ricetta coinvolgiamo l’Accademia del Gusto, un centro di formazione d’eccellenza del settore enogastronomico nel panorama lombardo e affermati professionisti della ristorazione, ciascuno dei quali firma la ricetta del suo territorio di origine, talvolta personalizzandola o rivisitandola.

    Che cosa distingue My Cooking Box dai preparati già in commercio? 

    My Cooking Box è un meal kit che contiene al suo interno tutti gli ingredienti, nelle giuste dosi, per cucinare un piatto regionale italiano con la ricetta di uno chef. All’interno di ogni cofanetto ci sono solo ingredienti ricercati e naturali, tutti made in Italy e a lunga conservazione, per evitare sprechi e cucinare con comodità e semplicità quando si preferisce. A differenza di aziende che offrono servizi analoghi, però, My Cooking Box è un prodotto che viene venduto sia attraverso il canale fisico, presso vari rivenditori (shop enogastronomici, panetterie, aeroporti, store Mondadori, per citarne alcuni), sia attraverso il canale online. Tutto ciò è possibile perché all’interno delle nostre box gli ingredienti sono tutti a lunga conservazione e con una shelf-life ad ampio margine e questo ci ha permesso di vendere il nostro prodotto in più di 20 Paesi.

    Qual è il target a cui avete pensato quando avete creato il progetto? I Millennials, la generazione Z che non sanno cucinare e spesso hanno genitori troppo indaffarati per passare i segreti di cucina? 

    Il consumatore di oggi ha l’abitudine di acquistare per prodotto e, spesso e volentieri, si ritrova con la dispensa piena ma senza quell’ultimo ingrediente necessario per realizzare il piatto preferito. Quindi, perché non cambiare questo processo e indurre il consumatore ad acquistare per ricetta? My Cooking Box trova la risposta a tutto questo, con riduzione di tempo e di spreco assicurata, diventando così ideale per tutti: per una coppia che lavora e ha poco tempo per fare la spesa e per cucinare, per chi decide di trascorrere il fine settimana nella propria casa vacanza senza dover trasferire l’intera dispensa di cucina e per tutti quelli che hanno l’esigenza di improvvisare un pranzo o una cena all’ultimo minuto, ma senza rinunciare alla qualità. Le nostre box sono perfette anche (e soprattutto) per i turisti stranieri che in genere, avendo poca dimestichezza con la cucina e volendo ripetere a casa un piatto assaggiato in Italia, si trovano in difficoltà sia a reperire particolari ingredienti, sia a come realizzare la ricetta in modo impeccabile.

    Qual è la storia del logo e del packaging a forma di casetta? Avete da subito pensato alla casa nel vostro immaginario? 

    Abbiamo cercato di studiare un logo che potesse essere internazionale e comprensibile a tutti fin da subito. Abbiamo scelto di chiamare la nostra startup My Cooking Box per sottolineare che il nostro prodotto può essere: “MY COOKING” perché ognuno nella propria cucina di casa può vivere la sua personale esperienza culinaria; “BOX” perché tutto questo è racchiuso nei nostri cofanetti.

    La forma della box invece, simile a una casetta, è un rimando alla semplicità e praticità di My Cooking Box, che offre appunto la possibilità di cucinare come un vero chef direttamente a casa propria in tutta tranquillità.

    Mi è piaciuta la sua storia fatta di passione e determinazione da ingegnera gestionale a imprenditrice di food. Quando ha capito che l’idea era vincente? Quanto è stata utile la campagna di equity crowdfunding sulla piattaforma Mamacrowd?  

    L’equity crowdfunding è una forma di finanziamento forse ancora poco conosciuta in Italia, ma che permette di ottenere ottimi risultati che spesso vanno ben oltre le aspettative. Ad oggi sono state due le campagne di crowdfunding alle quali abbiamo aderito: la prima ad agosto 2016 a fianco della piattaforma CrowdFundMe, in cui abbiamo raggiunto in soli venti giorni il budget prefissato di 50mila euro, e abbiamo chiuso con nostra grande sorpresa con un overfunding del +400%; la seconda campagna di crowdfunding, invece, è stata avviata quest’anno all’inizio di maggio con MamaCrowd, la prima piattaforma di equity crowdfunding in Italia, e si è conclusa in breve tempo più di 500.000 euro raccolti.

    Entrambe le campagne di equity crowdfunding sono state per noi uno strumento utilissimo, dal quale abbiamo ricevuto molteplici vantaggi: al di là del finanziamento raccolto, sono state un vero e proprio trampolino di lancio, che ci ha permesso di avere contatti con molti investitori e di conseguenza di aprire la nostra attività in nuovi canali. Ogni investitore, infatti, si sente parte del progetto e contribuisce non solo economicamente ma anche dal punto di vista di contatti e relazioni commerciali. Grazie a tutti loro siamo riusciti ad entrare a contatto con realtà magari difficili da raggiungere da soli e a stringere collaborazioni importanti. Non solo, l’aver superato di molto il nostro budget iniziale ci ha conferito grande visibilità, permettendoci di essere notati da grandi aziende già consolidate che hanno deciso infine di partecipare investendo nel nostro progetto.

    Quali sono le caratteristiche fondamentali che deve avere uno startupper per riuscire e quali suggerimenti si sente di dare a una giovane con un’idea brillante? 

    Quando si intraprende un percorso come questo è fondamentale essere il più determinati possibili e credere fortemente in quello che si sta facendo, senza avere timore a comunicare le proprie idee, soprattutto nella fase iniziale. Il rischio maggiore che si può compiere, infatti, è quello di cercare di tenere nascosto il proprio prodotto: essere gelosi della propria idea o della propria intuizione in certi casi è utile, ma esserlo troppo può diventare un problema, perché non dà la possibilità di ricevere quei consigli e opinioni che permettono di migliorare e magari vedere qualcosa che da soli non riusciremmo a notare. Confrontandosi con altre persone, invece, si possono ricevere consigli e nuovi spunti che ti permettono di crescere e migliorare. Infine, ma non ultimo per importanza, è fondamentale avere tanta pazienza e capacità di reazione anche di fronte a risposte negative, senza lasciarsi abbattere alla prima difficoltà: in questo percorso la strada è spesso in salita, ma posso assicurare che ogni traguardo raggiunto è una grande soddisfazione.

  • Cinque Quinti: una storia di castelli e di vigneti

    Ho conosciuto Cinque Quinti grazie ad un gruppo social di cui faccio parte. Martina Arditi aveva invitato le socie a partecipare ad un tour organizzato in Monferrato, per scoprire vigneti e borghi storici. Dopo qualche messaggio e telefonata ho raggiunto Cella Monte, non solo uno dei Borghi più belli d’Italia dal settembre 2018, ma anche il luogo in cui ha sede l’Ecomuseo della Pietra da Cantoni, che da anni studia gli infernot (o infernòt). Sapete di cosa si tratta? Se, come me, siete nati in Piemonte ne avrete sicuramente sentito parlare dai nonni e ne avrete visitato almeno uno. In occasione dell’incontro ho avuto il piacere di conoscere anche gli altri 4 fratelli, insieme hanno dato vita a Cinque Quinti, ovvero 5 giovani uniti non solo dalla parentela, ma anche dalla passione per i vigneti ed il vino tramandata dai nonni. Con grande entusiasmo, da diversi anni, stanno portando avanti l’attività agricola, con tante idee nuove ed un tocco fresco e innovativo. Conosciamo meglio i giovani Arditi.

    Martina ciao, ci racconti chi era il famoso nonno che ha dato vita alla “saga familiare”?

    I racconti che abbiamo sono di nostro nonno Mario, che quasi sognante parlava del suo papà Giuseppe Giorgio Camillo, nato a Cella Monte nel 1872 e venuto a mancare nel 1928, sposato con Giuseppina. Insieme hanno vissuto nel castello di Cella Monte con i loro 9 figli: Adele, Teresa, Gesuina, Francesca, Paolo, Carlo, Camillo, Demetrio e, appunto, nostro nonno Mario. Considerata la grandezza dell’abitazione, l’altra ala era abitata dal fratello di Giuseppe, Pio, con la moglie Santina.
    L’agricoltura era il principale mezzo di sostentamento della famiglia e la produzione in eccesso veniva venduta. La cantina sotto alla nostra abitazione, in disuso dal 1956, era utilizzata per la produzione di vino. Da alcuni documenti storici abbiamo scoperto che la famiglia “Arditi del Castello” era particolarmente famosa per la qualità dei suoi vini, già ai tempi, distribuiti in tutta Italia. Tra gli anni ’50 e ’60 molte cantine private hanno deciso di chiudere, per dare vita alla cantina sociale, collaborare e dividersi le spese. Vi ho accennato che la nostra abitazione un tempo era un castello, ma vi starete chiedendo: davvero un castello? Eh già, siamo stati particolarmente fortunati ad aver ereditato l’unica fortezza rimasta in piedi dal 1100 circa; nel tempo è stata abitata da diverse famiglie nobili per arrivare nel 1700 ad essere proprietà degli Arditi e i nostri nonni l’hanno poi ristrutturata con un gusto molto contemporaneo, senza snaturarla.
    Sai Simonetta, il commento che più ci ha emozionato durante il recente evento di IT.A.CÀ è stato quello di Andrea Cerrato, presidente di “Sistema Monferrato”:

    Varcare la soglia della vostra corte è come fare un tuffo nel passato, ma nello stesso tempo c’è una grande energia positiva e coinvolgente.

    È esattamente quello che proviamo noi quotidianamente ed è bello che le nostre mura trasmettano questo anche agli altri. Ti confesso, inoltre, che quest’inverno inizieremo qualche lavoro di miglioria nella cantina storica, non per la produzione vera e propria, questo purtroppo sarebbe complicato logisticamente parlando, essendo proprio nel cuore di Cella Monte, ma con l’obiettivo di trasformarla in una sorta di sala degustazione e di invecchiamento per i nostri vini.

    È vero che vostro padre non ha continuato la tradizione di famiglia. Quando avete rilevato le vigne? Com’è cambiata la produzione negli anni?

    Il nonno ha sempre spinto nostro papà Giuseppe ad allontanarsi dall’agricoltura e così, ottenuto il diploma di Ragioniere, dopo una prima lezione alla facoltà di Giurisprudenza, non andata molto bene, ha deciso di buttarsi nel mondo del lavoro, riuscendo in una brillante carriera. Partito da apprendista a soli 19 anni, è diventato con il tempo un manager affermato in un’importante azienda di legnami della zona. Tra un viaggio di lavoro e l’altro e l’impegno di 2 mandati come sindaco per il Comune di Cella Monte, ha sempre dato il suo contributo per portare avanti l’attività del nonno. Compresa, poi, la grande passione di Fabrizio e Michele, primo e terzo quinto, li ha aiutati e sostenuti nella decisione di rilevare l’attività, che nel 2010 è passata nelle loro mani. Fabrizio aveva 24 anni e Michele era poco più che ventenne, quindi come puoi immaginare le difficoltà sono state molte all’inizio. Grazie però ad alcuni importanti investimenti e agli sforzi profusi da tutta la famiglia, ma soprattutto trainati della profonda passione trasmessa dal nonno, gli uomini di casa hanno decuplicato il terreno tra quello di proprietà e quello gestito, in affitto o in conto terzi, passando quindi a lavorare da 7/8 ettari a quasi 100.
    Con l’ingrandirsi dell’azienda sono aumentati i collaboratori e le responsabilità, l’organizzazione si è fatta più complessa per arrivare ad una chiave di volta nel 2015 quando, dopo una prima produzione di vino nata quasi per gioco, abbiamo dato vita a Cinque Quinti. Qui siamo entrate in gioco io e Francesca, che fino ad allora ci eravamo dedicate all’università, allo studio delle lingue e a diversi lavori principalmente in ambito marketing e comunicazione, che sono ancora la nostra prima occupazione.
    Cinque Quinti è un brand della società agricola Fratelli Arditi, è la nostra creazione, alla quale ha collaborato anche il più piccolo di noi cinque, Mario, che tra la scuola e la passione per la chitarra ci ha sempre dato una mano nelle varie attività, soprattutto in occasione della vendemmia. Un tassello fondamentale, che non ho ancora menzionato, è stata la nostra mamma Manuela. Senza di lei, che ci ha cresciuto, supportato e sopportato (abbiamo tutti dei bei caratterini…) non saremmo qui a lavorare fianco a fianco.
    Forse mi sto dilungando troppo, ci sarebbero tante cose da raccontare, ma direi di passare alla prossima domanda.

    Ci spieghi che cosa sono gli infernot?

    Gli infernot sono locali sotterranei costruiti scavando a mano una particolare roccia, la pietra da cantoni, ovvero una pietra arenaria di agevole escavazione. Sono un’appendice della cantina, priva di luce ed aerazione naturale, ubicata comunemente sotto le case, i cortili e talvolta sotto le strade dei nostri borghi monferrini.
    Vere e proprie opere d’arte, capolavori architettonici, sono nati dalla tradizione e dal sapere contadino, realizzati nei lunghi inverni, non da esperti cavatori, ma da semplici agricoltori, diventati scultori monferrini, veri artisti rimasti anonimi nella quasi totalità dei casi. Sul territorio sono tanti gli infernot presenti: 47 sono quelli censiti a partire dal 2002 dall’Ecomuseo della Pietra da Cantoni in collaborazione con l’Istituto Superiore Statale “Leardi” di Casale Monferrato. Nel giugno del 2014 poi “I paesaggi vitivinicoli del Piemonte” (Langhe – Roero e Monferrato) sono diventati il 50° sito italiano iscritto nella Lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO, proprio grazie alla presenza degli infernòt.
    Noi lo diciamo sempre, sono uno dei validissimi motivi per venirci a trovare!

    Qualche ricordo di quando eravate bambini?

    Stüddia, stüddia!” ci diceva in dialetto nostro nonno. Lo ripeteva sempre, soprattutto quando non avevamo voglia di fare i compiti, quando facevamo i pigri e preferivamo rimanere in cortile a giocare a palla. Ancora oggi ce lo ripetiamo tra di noi e sorridiamo imitando il suo tono di voce.
    Diciamo che ognuno, a modo suo, ha seguito il prezioso consiglio. Terminati gli studi canonici, scuole superiori per Fabrizio e Michele, universitari per me e Francesca, in questi ultimi anni siamo ritornati tutti tra i “banchi di scuola” specializzandoci in diversi ambiti riguardanti il mondo del vino e della sua comunicazione, aspetto assolutamente da non trascurare.
    Io frequento il corso sommelier, Fabrizio ha terminato il corso Mastro di Cantina, che ora ha cominciato Michele, mentre Francesca, la creativa di famiglia, prova e sperimenta quotidianamente nuove soluzioni digitali che ci permettono di migliorare il nostro sito ed il nostro blog e di avere un e-commerce attivo e che spedisce in tutta Italia. Il più piccolo, Mario, ha terminato a giugno l’Istituto agrario e ora si trova in Australia per un’esperienza lavorativa davvero unica, alla scoperta di un mondo vitivinicolo così lontano e diverso dal nostro, ma che sicuramente tornerà utile a tutti.
    Il nonno Mario lo vediamo ancora lì, seduto sulla panchina in cortile, con il suo gelato “Camillino” a spronarci a fare bene, ad impegnarci in qualunque cosa dovessimo fare. Un ricordo vivo nella nostra memoria che cerchiamo di onorare ogni giorno e custodiamo con affetto nei nostri cuori.

    Cella Monte è considerato uno dei Borghi più belli d’Italia. Che cosa rappresenta per voi?

    Per prima cosa una grande emozione! Adoriamo il nostro paese, è un borgo incantato. Siamo cresciuti per quelle strade, godendoci tante primavere di assoluta libertà, giocando in bicicletta d’estate, trascorrendo magnifiche giornate d’autunno sul trattore con il nonno e passando gli inverni a lanciarci palle di neve.

    Ora per noi vuol dire visibilità, nuovi turisti provenienti non solo da città vicine, ma da tutta Europa.

    Il primo grande passo verso un risveglio del settore terziario si è avuto quando siamo stati riconosciuti Patrimonio Unesco nel 2014. Ci sono sempre più persone desiderose di scoprire e riscoprire le tradizioni monferrine, appassionati di vino e della buona cucina che vengono a trovarci.

    Certo, il paese è davvero piccolo e bisogna anche attrezzarsi per poter accogliere nel modo migliore questa nuova e crescente domanda, partendo dal potenziamento delle strutture ricettive che sono ancora poche, ma sono certa che miglioreremo. A tal proposito, abbiamo da poco attivato una partnership con il bed and breakfast “Dalla Nonna”, proprio a due passi dalla nostra sede. Una nuova ed emozionante avventura!

     

    Uno dei fratelli è partito da pochi giorni per l’Australia. Uno scambio di culture vinicole? Perché non ha scelto ad es. Napa Valley in California?

    Durante il quarto anno di scuola superiore Mario era stato in Colorado, un’esperienza unica che gli ha aperto decisamente nuovi orizzonti. In quei 12 mesi ha avuto la possibilità di spostarsi molto, crescere, sperimentare, così al suo rientro era già deciso a pianificare una seconda importante avventura. Fin da subito si è mostrato interessato all’Australia, un Paese che offre la possibilità di ottenere un visto chiamato Working Holiday, ovvero la possibilità lavorare e viaggiare per un anno intero. Questo continente ha l’estensione dell’Europa, un’immensità tutta da vivere! Hanno una buona cultura vitivinicola che Mario avrà la possibilità di toccare con mano, vendemmiando per diversi produttori nell’Hunter Valley e seguendo i lavori in cantina. Che dire, beato lui!

    Ho letto che la produzione di vino con le vostre etichette è nata 3 anni fa. Quali progetti per il futuro?

    Tantissimi! Siamo partiti con 750 bottiglie di Vino Rosso della vendemmia 2015, in realtà una Barbera del Monferrato, ma proprio perché non eravamo partiti con l’intenzione di metterle sul mercato, non abbiamo potuto per legge scriverlo sulle etichette, abbiamo quindi lasciato la denominazione generica vino da tavola.

    L’anno successivo abbiamo quasi duplicato la produzione con 1400 bottiglie e stiamo per imbottigliarne una piccola selezione di 600, sempre di uva barbera che ha fatto 20 mesi di tonneau, “Roverò”, una vera chicca che sarà pronta da assaggiare intorno al prossimo febbraio e non vediamo l’ora!

    La società agricola Fratelli Arditi è nata come produttore di uva, cereali, girasoli, e un ettaro di tartufaia, oltre i pioppeti, quindi non abbiamo ancora una cantina nostra, ma collaboriamo con alcune aziende vicine e seguiamo il processo di vinificazione dall’inizio alla fine. Una nostra aspirazione è di renderci completamente indipendenti, speriamo di poterlo fare presto. Come ci diciamo e ripetiamo spesso: un passo alla volta!

    Da poche settimane siamo anche diventati fattoria didattica. Michele ha frequentato i corsi indispensabili per l’ottenimento del patentino e nei prossimi mesi inizieremo i lavori di ristrutturazione di una parte dell‘azienda che dedicheremo alla degustazione e alle attività istruttive.

    Insomma, abbiamo in cantiere tante novità che trasformeranno non solo alcuni locali dell’azienda ma anche le nostre giornate, perché il lavoro si intensificherà e diversificherà sempre di più.
    Concludo Simonetta confidandoti che spesso, purtroppo, la burocrazia che sta dietro a questa tipologia di progetti non è semplice e non è per nulla incoraggiante, ma noi ci crediamo e lavoreremo sodo per portare tanti nuovi turisti a scoprire le bellezze di Cella Monte e del Monferrato, offrendo vini di qualità, senza mai trascurare la tradizione!

  • Una storia di formaggi, vini e qualità – Borgiattino Formaggi a Torino

    Sotto i portici di corso Vinzaglio, nel cuore di Torino, potete scoprire  Borgiattino, una bottega storica specializzata in ‘una storia di formaggi, vini e qualità‘, come leggiamo sul sito. Il primo incontro è avvenuto un sabato mattina di qualche mese fa in occasione di una degustazione di mozzarella di bufala piemontese e di quella campana. Avvolta da profumi e sapori sono stata accolta dal titolare, il sig. Luciano Guidotti che, subentrato al sig. Borgiattino in quest’avventura nella gastronomia di alta qualità, ha preservato il brand storico

    La storia della bottega è molto più complessa e affascinante di quello che possiamo immaginare. Siamo negli anni ’20 quando in una Torino laboriosa Carlo Borgiattino avvia l’attività che lascia poi ai due figli, una tradizione familiare, una vita casa e bottega che è arrivata fino a noi.

    Quello che mi ha colpito non è tanto la varietà dei prodotti esposti, quanto il desiderio dei titolari di lasciare un segno, di emozionare, di diffondere cultura e una ricerca sapiente di prodotti da proporre ad un pubblico esperto ed attento alla qualità. Proprio a tal fine vengono organizzate le degustazioni e tour gastronomici per visitare le aree di produzione.

    Al primo incontro sono seguite altre visite nei mesi successivi fino al 17 settembre scorso, giorno della  premiazione dei Maestri del Gusto di Torino e provincia 2019-2020 a Torino Incontra. Proprio in quest’occasione, in attesa che Luciano ricevesse il premio, abbiamo fatto una breve intervista.

     

    Buongiorno Luciano quando sono venuta in bottega mi ha mostrato la maniglia con le iniziali FB, mi racconta la storia legata a queste iniziali?

    Una storia curiosa che è legata alle vicende familiari dei Borgiattino. Il negozio nacque nel 1927 dall’idea di Carlo Borgiattino che ebbe due figli: Candido (detto Dino) e Roberto. Quando si ritirò Carlo Borgiattino subentrarono i due figli ed ecco la ragione delle iniziali ‘FB’ ossia  ‘Fratelli Borgiattino’. Dopo pochi anni, tuttavia, i due fratelli non andarono d’accordo e si divisero, pur restando nello stesso settore. Dino mantenne il negozio originale in corso Vinzaglio, portando avanti una tradizione che risale a 90 anni fa e Roberto aprì un negozio in via Accademia Albertina. La targa mutò quindi di significato da ‘Fratelli Borgiattino’ a ‘Formaggi Borgiattino. Gli anni passarono, ma a causa della difficoltà connesse all’introduzione della ZTL, Roberto decise di ritornare nella bottega del padre e quindi i due fratelli si riunirono.

    Come si è scoperto la passione per i prodotti caseari, dal momento che ha un’estrazione di imprenditore in settore totalmente differente?

    Anche questa è una storia interessante, perché è legata alla mia curiosità innata e alla mia passione per i formaggi. Provengo dal settore elettromeccanico che resta la mia attività professionale primaria, ma sono attratto da settori merceologici diversi.

    Conoscevo Dino da quando era rimasto titolare unico del negozio e quando ebbe qualche problema di salute circa 15 anni fa decisi di rilevare l’attività. Assunsi anche le due commesse ‘storiche’ che collaboravano da 25 anni. All’inizio fu solo un hobby e il desiderio di avvicinarmi ad un mondo che da sempre mi affascinava, ma negli anni è diventata una seconda attività. Nella ricerca dei collaboratori pongo l’accento sulla curiosità, sul desiderio di conoscere ed apprendere la storia dei formaggi.

    Borgiattino è conosciuto ed apprezzato per la scelta di accurata dei piccoli produttori con produzioni limitate dalla fontina d’alpeggio al Plaisentif,  detto formaggio delle viole, tipico dell’alta Val Chisone e dell’alta Val di Susa, che si vende dalla terza domenica di settembre ed è disponibile solo fino a gennaio, al massimo a febbraio fino ad arrivare al Bettelmatt, il numero uno dei formaggi italiani. Piccole quantità per palati esperti. 

    Qualche aneddoto legato alla bottega? 

    I clienti mi riportano che Carlo Borgiattino spesso facesse finta di parlare al telefono con l’Avvocato Agnelli. Nessuno sa se fosse vero o meno, tanto che è diventata ormai una leggenda. Quando si entrava in bottega Carlo era al telefono voltato di spalle e pronunciava queste parole: <<Sì senatore, d’accordo senatore, domani le mando tutto quello che ha ordinato>>.

    Sappiamo che è sempre più forte l’attenzione al prodotto di qualità ed alla conoscenza della filiera. Come sono cambiati i gusti dei consumatori negli ultimi anni?

    In 15 anni ho notato che è cresciuta l’attenzione del consumatore verso la provenienza e la produzione dei formaggi.  Proprio per andare incontro a queste esigenze ho creato delle schede tecniche per ogni prodotto per diffondere cultura, oltre a fornire informazioni dettagliate nella bottega.

    Se il cliente, ad esempio, vuole approfondire le differenze tra la Fontina d’Alpeggio e di latteria, mentre lo serviamo lo acculturiamo. Ecco un esempio delle informazioni che vengono fornite di volta in volta. Ogni forma è numerata e classificata con un simbolo del CTF, acronimo che significa controllo tutela fontina. La Fontina d’Alpeggio deve avere un numero inferiore a 500 altrimenti è di latteria. Dal punto di vista organolettico ed economico si acquistano e degustano due formaggi completamente differenti. La Fontina d’Alpeggio è prodotta a 1800-2000 metri e le mucche si cibano di fiori ed erba dei prati, mentre per la Fontina di latteria l’alimentazione è basata sul fieno, Sono particolarmente esperto di Fontina, perché personalmente cerco gli alpeggi in Vallée. Faccio parte anche della giuria preposta a nominare ogni anno la migliore Fontina d’Alpeggio della Valle d’Aosta. Viene fatta una selezione tra 500 tipologie di Fontina arrivando a sceglierne solo 10 tipi tra cui verrà eletta la migliore dell’annata. Ogni produzione è diversa dall’altra in base all’alimentazione, al momento dell’anno in cui viene prodotto il latte.

    Il rapporto con il cliente è quello che distingue la piccola bottega dalla grande distribuzione. Non solo vendita, ma cultura di prodotto. A tal fine ho organizzato alcuni anni fa anche dei tour eno-gastronomici in Valle d’Aosta per portare i miei clienti a vedere i luoghi di produzione. Ad esempio, nel 2012 abbiamo visitato un’antica ex miniera di rame in Valpelline vicino ad Aosta. Si tratta di un centro di raccolta e stagionatura della fontina, capace di ospitare fino a 60.000 forme con annesso museo e degustazione di prodotto e vino.  Abbiamo poi proseguito la vista anche al castello di Issogne, che ha ispirato il Borgo Medioevale del Castello del Valentino di Torino. Quindi abbiamo unito varie forme d’arte e cultura.

    Ho rivisto più volte Luciano e ho scoperto che è una persona veramente eclettica con la passione per l’arte, la cultura e la scrittura. Ci ha regalato anche un suo racconto ispirato alla vita d’alpeggio, una storia che fa riscoprire i valori d’altri tempi, ricca di fascino e di modernità al tempo stesso.

    Buona lettura!

    Miele, formaggio e Buccia

     

    “Io!?”

    Quasi un urlo, risuonò per l’ampia stalla!  Sembrava che riassumesse in se orrore, sorpresa e in fondo anche divertimento per la richiesta, anzi l’ordine che le era stato dato.

     “Io!?” ripeté quasi ridendo.

     “Nonna, ma stai scherzando! Come ti viene in mente! Mai e poi mai farò una cosa del genere!”

     Mentre sorridendo rispondeva così alla sua adorata nonna, le venne da pensare a cosa avrebbero detto i suoi compagni di liceo se l’avessero vista fare quello che sua nonna le aveva chiesto. Chiesto! La nonna era adorabile in tutto e per tutto, compreso il suo carattere burbero, brontolone con un fondo di intelligente ironia. La nonna non chiedeva mai, ordinava. Le venne in mente il suo povero nonno; anche lui aveva ubbidito alla nonna per tutta la sua vita, e lo aveva fatto con tutto l’amore che la nonna meritava. Dicevano che lei era il ritratto della nonna da giovane.

    La nonna. In gioventù era stata  bellissima. Così si vedeva nelle fotografie.  Un corpo flessuoso e perfetto, con un volto delicato in cui spiccavano due occhi azzurri come il cielo di primo mattino, su all’alpeggio. Lunghi capelli neri, tanti e riccioluti. Adesso seduta su uno sgabello accanto alla sua mucca, stava mungendo con la stessa dolcezza con cui avrebbe accarezzato un bimbo.  Il suo culone tracimava dallo sgabello! Era invecchiata, appesantita dal lavoro in montagna, dalla cura della sua malga.  Una volta serviva solo per abitazione d’estate e rifugio di pastori, ma già da suo suocero era stata trasformata in una grande casa, poco sotto Pila. La nonna ripeté l’ordine, nel suo dialetto piemontese-aostano

    ” Siediti qui e impara a mungere!”

    Imperativa,  guardando di sotto in sù la sua bella nipote. Certo le parve molto appropriato il soprannome con cui l’avevano chiamata i suoi compagni di scuola , i suoi amici. Ormai anche in casa la chiamavano tutti così, quella gagna. Ed infatti per i suoi diciannove anni aveva un bellissimo corpo, alta e piena di armonia: dalla nonna aveva preso il colore azzurro degli occhi, che in più esprimevano una dolcezza mista a determinazione e carattere. Il volto, dall’ovale perfetto, era incorniciato da una massa di capelli ricci e biondissimi. “Miele” la chiamavano tutti.

    “Ohi! Miele, non avresti potuto vestirti prima di scendere nella stalla!”

    “Che dici, nonna! Sono vestita!”

    Si, vestita! Pensò la nonna. “ Che ti sembra di essere vestita con quelle mutande blu e la pancia di fuori?!”

    “ Mutande blu?! Nonna sono degli shorts di jeans! Ed ho sopra una camicetta corta…siamo d’estate!”

    “se io fossi venuta così bardata nella stalla e ci fosse stato tuo nonno, mi avrebbe mangiata viva!”

    “Aveva un grande appetito, il nonno!”

    “Vieni qui, donna nuda, che t’insegno a mungere! Almeno fai qualcosa di buono”

    Miele si sedette sulla paglia, di fronte alla nonna, guardandola con affetto e ammirazione. Brava la sua vecchietta! E che sveltezza nel muoversi, che agilità!

    “Nonna, ma come fai ad essere così brava. Non dovresti stancarti troppo, non è che sei una ragazzina!”

    “Perché no?! Intanto io non vado in giro in mutande blu come fai te! Sono ben coperta e attrezzata! E poi se non lo tiro giù io il latte, e non lo lavoro…il formaggio che hai mangiato ieri sera, ti era piaciuto o no?!

    Miele ascoltava la nonna immaginandola ragazza quando con suo marito saliva alla malga per il pascolo. Sembrava che fossero passati secoli da allora, e la nonna ripeteva giorno dietro giorno  gli stessi gesti: Il pascolo, la stalla, la mungitura, il latte, il formaggio. Come se le vite degli altri fossero state nuvole passeggere. Si chiese se la nonna aveva avuto dalla vita tutto ciò che aveva desiderato avere. Al liceo avevano più volte affrontato il tema della felicità, senza mai fare il punto di cosa significasse essere felici.

    “Nonna, tu sei felice?”

     E subito dopo Miele si pentì d’essersi fatta sfuggire di bocca questa domanda. Spostando il secchio del latte l’anziana e grossa donna si agitò sul panchetto facendolo scricchiolare pericolosamente. Guardò sorridendo la nipote e la vide in tutta la sua smagliante giovinezza.

    “Non mi sono mai preoccupata di esserlo! Posso però dirti che sono stata tanto infelice ed è stato quando è morto tuo nonno! Era in grado di fare uno dei più gustosi formaggi della vallata, Faceva una fontina, a pasta semicotta con il giusto grasso, e poi dopo tre mesi ti leccavi le dita!!”

    “Formaggi?!-esclamò Miele- ma non rimpiangerai il nonno solo per i   formaggi?!”

    “Miele mia, che ne sai te di quanto bisogna essere bravi per fare bene ciò che si fa! Tuo nonno, con me faceva tutto benissimo! Anche il formaggio. Lui aveva imparato da suo padre, da suo nonno e per generazioni non hanno fatto nient’altro che fare formaggi. E te, Miele mia, con le tue mutande blu che ne sai di come si fanno i formaggi?”

    “A scuola mi hanno insegnato tutto sul formaggio! I latini lo chiamavano formaticum, e si dice che il primo caciaro sia stato un pastore che si chiamava Aristeo,  e che era figlio di Apollo e di una ninfa che si chiamava Cirene.!”

    “Ecco perché tuo padre ti ha mandato a scuola! Ma non era meglio se ti avesse insegnato a mungere, e poi professoressa che ne sai dei formaggi?!”

    “ Sai nonna che ho tradotto dal greco un passo di Aristotele dove nella sua Storia degli animali racconta di come i pastori siciliani facevano il formaggio! E poi ne ho letto sul Columella che descriveva nel primo secolo dopo Cristo, nel suo De Rustica, la fabbricazione del formaggio. Persino Plinio il vecchio riporta un lungo elenco di formaggi napoletani”

    “Si, “i napuli” ora sanno fare anche i formaggi!”

    “Chi parla male dei “napuli” ?

    Una voce profonda e giovane s’intromise tra le due donne. Sulla porta apparve un giovane, alto quasi due metri, rosso fuoco di capelli.  Con la propria mole chiudeva quasi del tutto la porta della stalla.

    “Buon giorno nonna!”

    “ Alfredino!, il mio dottorino preferito, nonostante sia napoletano- esclamò la nonna- entra che così conosci Miele! Accidenti a te! Ma lo sai che ci hai fatto prendere una spavento con quel tuo vocione!”

    Miele fu costretta ad alzare il viso fino a scorgere nella penombra il volto di questo ragazzone, e si ritrovò la sua piccola mano stritolata nella mano di lui. Pensò che non aveva mai visto un ragazzo così bello e così rosso di capelli, con splendidi occhi verdi. Lì per lì le venne un po’ d’affanno.

    “E così tu saresti la nipotina cittadina tanto bravina a scuola! Ma è vero che ti chiami Miele?!”

    Alfredo non parlava, tuonava! Miele s’infastidì per quest’approccio poco gentile e non seppe cosa rispondere. Poi riprese fiato e chiese con disinvoltura se lui lo chiamavano Arancio, visti i suoi colori.

    “Arancio, ma chi te l’ha detto!? Persino in ospedale i colleghi mi ci chiamano così! E poi siccome non vado mai via dai reparti dopo aver visitato i malati, qualcuno mi chiama anche Buccia, il dr Buccia. E questo perché mi appassiono e cerco di star loro vicino finché posso”

    Quasi ignorandoli  la nonna  riprese a mungere; i due, come se Eros li avesse  folgorati, cominciarono una lunga chiacchierata sulla loro scuola, su cosa lei si aspettava dalla vita, sul futuro dei suoi studi, mentre Buccia le raccontava di come avrebbe voluto specializzarsi e poi lavorare a Torino, insomma….. non la finivano più.

    La nonna li guardava sorridendo. Da brava vecchia montanara, anzi quasi da antica malgara presagi il futuro, pensando che il miele con una buccia d’arancio su una fetta di fontina fosse  un piatto divino che le avrebbe dato tanta felicità!!

     

  • La storia del Capitano Rosso: arte del cioccolato a Torino – Maestri del Gusto –

    La storia del Capitano Rosso è ricca di fascino, perché il profumo del cioccolato dalle navi mercantili arriva fino a corso Traiano di Torino. Grazie al progetto “Maestri del Gusto di Torino e provincia”, ho conosciuto questa realtà fatta di passione e di tradizione e ho incontrato il Maestro Gianfranco Rosso, titolare della Pasticceria del Capitano Rosso e Cioccolateria La Cambusa.

    Qualche settimana fa ho visitato la cioccolateria e il Capitano mi ha accolto in giacca stile marina e mi ha parlato della sua vita divisa tra due grandi passioni: il mare e il cioccolato. L’amore per il cioccolato è un’eredità di famiglia, perché il padre Francesco aveva iniziato l’attività di panettiere e di pasticcere nel  lontano 1923. Un legame speciale lega il signor Gianfranco al padre e con grande ammirazione e affetto mi narra della loro attività legata alla tradizione e al culto dell’arte pasticcera.

     

    Perché signor Gianfranco ha pensato di mantenere il legame con il mare all’interno della sua attività?

    Come giustamente da Lei introdotto il Mare è stato, ed è ancora, la passione che porto nel cuore. Per cui ho pensato di circondarmi di arredamento, foto ed oggetti che ricordano la mia precedente esperienza. Comunque il vero colpevole di questa scelta è stato mio padre, che, per amore paterno, intitolò la pasticceria “Capitano Rosso”, a mia insaputa, e che scoprii durante un breve ritorno!!

     

     

    Quale ricordo d’infanzia la lega al cioccolato: le ore passate nell’azienda di famiglia, le festività, altro?

    Nei miei ricordi da bimbo è ben presente il surrogato di cioccolato, in quanto il vero cioccolato non era così diffuso. Ricordo particolarmente i blocchi di surrogato bianco/nero che venivano venduti a fette nel negozio dei miei genitori. Per noi ragazzini era una vera conquista ottenerne un piccolo pezzo!! Infatti sia io che i miei amici, ci proponevamo per effettuare piccoli lavoretti o consegne al vicinato per ottenere l’ambito premio. Il vero cioccolato lo conobbi più tardi, da ragazzo, quando con mio padre venivamo a Torino per consegnare i nostri prodotti ai grossisti, e, nel periodo pasquale acquistare dagli stessi le uova pasquali decorate. Le stesse erano rivendute nei nostri negozi di Vercelli con notevole successo, in quanto provenienti dalle validissime realtà artigianali di Torino. In quegli anni mio padre iniziò a produrre con notevole successo biscotteria secca ricoperta di vero cioccolato fondente. Una vera golosità!!

    In tanti anni di attività ha avuto sicuramente momenti felici e meno felici, mi racconta un episodio?

    Naturalmente dopo circa mezzo secolo di attività (siamo aperti a Torino dal 2 Settembre 1971), si sono succeduti numerosi episodi positivi ed altri negativi. Per mio carattere preferisco ricordare episodi positivi o simpatici, come quello della nonna che mi richiese di immettere un pulcino vivo all’interno di un uovo pasquale destinato al nipotino. Alle mie obiezioni circa la possibilità di sopravvivenza del povero animaletto (e per ovvi motivi di igiene), mi consigliò di realizzare dei fori nel cioccolato dell’uovo!! Ovviamente il finale fu di inserire un peluche all’interno dell’uovo. Assicuro che non fu facile arrivare a quest’ultima conclusione!!

    Ho letto che avete in azienda oltre 10.000 stampi per 2.000 soggetti differenti. Qual è il soggetto più originale?

    Per il sottoscritto gli stampi, e la conseguente possibilità di realizzare un’infinita gamma di prodotti, sono una vera passione, quasi una malattia. Pertanto non perdo occasione per acquistare o realizzare in proprio matrici e stampi di ogni forma e soggetto; è molto più che un hobby. Questa disponibilità ci permette di soddisfare le esigenze più strane della clientela, ed ogni richiesta originale diventa una sfida da vincere. Molto bello e gratificante. E’ difficile individuare un solo lavoro che mi abbia impressionato in modo particolare, perché la gamma di opere realizzate è stata veramente molto varia; si parla di fabbriche intere o ipermercati o presepi giganti in cioccolato; passando per loghi o prodotti aziendali da pubblicizzare (macchine fotografiche, navi da crociera, facciate di hotels, cruscotti di automobili, ecc.). Ogni realizzazione ha richiesto studio, disegni e prove che ci hanno permesso di raggiungere il risultato finale: la soddisfazione del cliente, nostra e, non ultimo, stupire gli utenti finali.

    Qual è il suo gusto preferito tra le 50 varietà e gusti di praline che producete e perché?

    Domanda  a cui è veramente difficile rispondere. Come ogni buon artigiano ogni realizzazione è “Figlia nostra”, per cui sono tutte amate. Da buon piemontese indirizzo prevalentemente le mie scelte sulle varie declinazioni possibili a partire dalle Nocciole Piemonte I.G.P., che sono un ottimo e sicuro punto di partenza per moltissime varietà. Se devo fare una scelta questa è indirizzata ad arancio/nocciole Piemonte/fondente 71%.

    Mi narra com’è nata l’idea del prodotto ‘Crokaffé’ nel 2015?

    Il “Crokaffè” è stato il raggiungimento di un sogno. L’idea di realizzare un prodotto solido che potesse permettere alle persone di portare con sé in ogni momento il piacere di gustare un caffè (od un tè o diverse altre piccole coccole) era nei miei progetti da molto tempo.

    Il tempo passato in prove, test, ricerche e studi (circa 1 anno) è stato veramente gratificante. In questo periodo mi sono confrontato con molte persone, ho ascoltato suggerimenti, critiche ed idee di vario genere; il tutto mi è stato utile per il raggiungimento del mio obiettivo. Oggi sono certo di aver conseguito il risultato che mi ero proposto.

    Da qui in poi parte una realtà che è molto più difficile per un piccolo artigiano: la commercializzazione su vasta scala. Purtroppo non è più alla portata di una piccola realtà quale la nostra il poter uscire su un mercato di vaste proporzioni.

    Non importa, il risultato è stato raggiunto e la nostra clientela ci riempie di soddisfazioni; il futuro…vedremo!!!

     

    Com’è cambiato il gusto dei consumatori da quando ha avviato la pasticceria del Capitano Rosso? Che cosa distingue il cioccolato italiano artigianale da quello estero?

    Come ovvio le maggiori possibilità di viaggio e di conoscenza hanno portato ad un differente apprezzamento dei gusti e delle sensazioni anche visive. Da parte nostra si è cercato di valorizzare sempre più la trazione dolciaria torinese, un po’ in controtendenza rispetto al momento, curando maggiormente l’aspetto; senza però seguire totalmente le mode. Questa politica non ci ha deluso e constatiamo un interessante apprezzamento anche da parte della clientela più giovane. A nostro parere la strada della moderata innovazione della tradizione è pagante, pertanto questa è la strada che continueremo a seguire.

    Per quanto concerne il cioccolato la strada che seguiamo è leggermente diversa; pur partendo dalle materie prime tradizionali, sviluppiamo prodotti innovativi soprattutto nell’aspetto. Giochiamo con l’attualità e le mode del momento, mantenendo inalterata la qualità finale del prodotto in Europa.

    Nel 2017 avete realizzato il ‘Castello di Dracula’ in diretta pubblica con 280 kg di cioccolato nella sala San Giorgio del Borgo Medioevale di Torino. L’opera è stata poi esposta a Palazzo Bombrini di Genova Cornegliano e nel Palazzo Regionale Liguria e poi donata all’ospedale Gaslini. Il suo impegno nel sociale è continuo. Quali saranno le prossime iniziative? 

    Ritengo che mettere le “mani” a disposizione del “Sociale” sia aver raggiunto il massimo nella propria esperienza di vita. L’incontro con “La Band degli Orsi”

    (ONLUS dell’ospedale Gaslini di Genova, che si occupa principalmente di assistenza alle famiglie dei bimbi ricoverati), mi ha permesso di partecipare direttamente ed attivamente al raggiungimento di grandi risultati.

    In questi ultimi anni abbiamo realizzato molte iniziative (il Presepe napoletano, l’Arca di Noè, il castello di Dracula, dimostrazioni, corsi, ecc.) tutte con soggetto principale il cioccolato.

    Quest’anno a Genova nell’ambito del “Festival della Scienza”, costruiremo un’opera in cioccolato (La Moto Spaziale) che ci vedrà all’opera con la presenza degli astronauti italiani e di scienziati di tutto il mondo. Naturalmente il tutto a favore de “La Band degli Orsi”.

    In contemporanea dedicheremo spazio a corsi di cioccolato per bambini ed altre interessanti iniziative ancora in fase di definizione. Tutto questo avverrà con Antonio Le Rose, Franco Rossetto, Paolo Gusella, il sottoscritto, e numerosi altri colleghi che presteranno gratuitamente ed appassionatamente la loro opera.

     

    La storia del Capitano Rosso è solo la prima di una nuova sezione del progetto ‘Alla ricerca di storie’ dedicata ai Maestri del Gusto di Torino e Provincia, maestri che ho conosciuto ed apprezzato grazie alla Camera di Commercio di Torino. Seguitemi per scoprire altre narrazioni e interviste di artigiani che fanno del loro lavoro una vera e propria arte.

    Buona lettura!

     

     

  • Food experience e botteghe a ‘Passeggiando con gusto’

    In una mattina uggiosa di fine febbraio l’appuntamento per scoprire botteghe gourmet piemotesi e vivere una food experience è sotto i portici di Piazza Statuto angolo via Cibrario. Arriviamo al press tour alla spicciolata imbacuccati in sciarpe e cappelli, a causa della pioggia battente e del freddo che ancora non fa presagire l’arrivo della primavera. Sabato mattina è il momento dedicato ai mercati rionali e alla spesa nelle botteghe. Torino è ricca di realtà gourmet, di mastri artigiani che hanno fatto del food una vera e propria cultura. Spesso, tuttavia, le eccellenze presenti nella nostra città sono conosciute da pochi eletti per quella sabaudità e ritrosia a esporsi e a comunicare. Ricordo l’espressione non mi oso” , usata frequentemente dai miei nonni materni,  piemontesi doc. Seppur non corretta dal punto di vista grammaticale, ben esprimeva il nostro carattere schivo e portato a non mettersi troppo in evidenza, non osare, appunto.

    Accompagnati dai rappresentanti della Camera di Commercio di Torino e del Festival del giornalismo alimentare, siamo un gruppo eterogeneo di giornalisti  e food blogger di Bologna, Forlì, Roma e Torino. Sono l’unica storyteller, ma mi sento pienamente ‘a casa’, perché le narrazioni sono il filo conduttore della giornata.

    Tra i tanti tour proposti dal Festival nel territorio piemontese e valdostano ho scelto ‘Passeggiando con gusto’ proprio per andare alla ricerca di botteghe, che è l’anima del mio progetto. Ho scoperto realtà ricche di storie e di fascino. Ma partiamo dalla storia del quartiere dove prende il via la visita.

    Porzione all’angolo con via Cibrario. Fotografia di Davide Rolfo, 2012. © MuseoTorino

    San Donato è un quartiere storico di Torino che prende il nome dalla prima Chiesa di San Donato edificata grazie ad alcune organizzazioni religiose stabilite nell’area fin dal XIV secolo. Collocato ai confini delle antiche fortificazioni cittadine aveva una vocazione agricola durante il XVII e il XVIII secolo, perché il canale di Torino forniva un sistema d’irrigazione ideale ed energia a basso costo. Vi si stabilirono scuderie con carri e cavalli, molti artigiani e nacquero le prime concerie cittadine per cui dalla seconda metà del Settecento si trasformò in area industriale.

    ‘Con il trasferimento della capitale da Torino a Firenze il Governo d’Italia stanziò a favore di Torino una rendita annua di 300.000 Lire, che venne utilizzata per la costruzione di un nuovo canale per alimentare le industrie cittadine che si sviluppavano sempre più numerose.
    Questi eventi portarono all’incremento dello sviluppo industriale del Borgo con l’installazione di una quindicina di fabbriche principalmente rivolte alla produzione di birra, cioccolato e alla concia delle pelli. ‘ (Fonte sito del Museo Torino) 

    A pochi passi da noi si trova via  Balbis dove ‘nel 1865 i produttori  dolciari Talmone e Caffarel– Prochet inventarono il giandujotto, cioccolatino torinese noto a livello internazionale e in corso Regina Margherita angolo via Vicenza, era ubicato il primo stabilimento della Pastiglie Leone, Nella zona sorgevano anche “La Torinese”, produttore di  panettoni e alcuni birrifici storici, “Bosio & Caratsch” di corso Principe Oddone 81 e la birra Metzger di via S. Donato,68.’ Sempre nel sito del Museo Torino  potete approfondire la storia della città dell’800. 

    Il tour prevede più tappe per conoscere prodotti tipici del nostro territorio dal pane alla carne, dal cioccolato al gelato e degustazioni anche di birra artigianale. I produttori che incontriamo fanno parte dei “Maestri del Gusto di Torino e provincia” , progetto nato nel 2002 grazie alla Camera di commercio di Torino, al suo Laboratorio Chimico e a Slow Food e che oggi annovera più di 182 membri provenienti da 26 categorie. A novembre 2017 è partita anche l’iniziativa #MaestriDigital  che aiuta i produttori a comunicare sui social media.

    Come ci spiega Daniela Fenoglio della Camera di Commercio, per avere il riconoscimento di Maestro del gusto che ha cadenza biennale, i produttori devono rispettare i requisiti di legge sull’igiene e sicurezza dei prodotti alimentari e ottenere il parere positivo dal Laboratorio Chimico.

    Ecco la mappa del tour realizzata su Google maps (vedi link

    :

    Percorriamo via Cibrario e ci fermiamo al numero 31 al Panificio Avetta  dove siamo accolti da Riccardo Avetta, terza generazione di esperti panificatori. La passione per la panificazione nasce infatti nel lontano 1929 in Valle d’Aosta, grazie a Riccardo Avetta e poi prosegue a Torino nel 1957 ad opera di Tullio Avetta, padre di Riccardo. Durante la visita ci vengono fornite informazioni sulla macinazione a pietra, sulle farine di tradizione antica così pregiate, ma difficili da trattare e sulla lievitazione di 30 ore. La degustazione di focaccine e pizzette appena sfornate ci fa iniziare la giornata in modo gourmet.

    Al numero 61 troviamo la Macelleria Giampaolo Crȕ dove potete trovare carne bovina di razza piemontese di alta qualità. Nata nel 1983 si è reinventata con un prodotto innovativo, il Crȕ (in piemontese crudo), un sushi con riso pregiato della famiglia Rondolino e carne cruda che è simile al ben noto prodotto giapponese. La sig.ra Emiliana Marras, moglie del signor Giampaolo ha raccontato com’è nata l’idea del sushi di carne e i progetti futuri dell’azienda familiare. Facciamo un assaggio di carne cruda accompagnato da un buon bicchiere di bollicine.

    La 3a tappa del tour ci porta in via Jacopo Durandi 13 alla Piazza dei Mestieri, un centro che unisce giovani e maestri artigiani per trasferire competenze e passioni. Un progetto educativo che si è sviluppato negli edifici storici delle Concerie Fiorio della Torino metà Ottocento. Tra le molteplici proposte della Piazza degustiamo il cioccolato artigianale (Le delizie della Piazza) e la birra artigianale (Le birre della Piazza). Grazie allo chef Maurizio Camilli scopriamo che nel 2007 all’interno della Piazza nasceva un vero e proprio birrificio, proseguendo la vocazione di Torino che nell’ 800 contendeva il primato di produzione della birra addirittura a Monaco di Baviera. Alla metà dell’800 infatti nella zona erano attivi ca. 180 produttori e avevano creato una birra denominata ‘Chellerina’ dal nome delle belle cameriere bionde che offrivano la birra nei locali. Negli stessi edifici dove oggi sorge la Piazza dei Mestieri erano ubicati due dei più antichi birrifici torinesi:  Bosio & Caratsch, il primo nato in Italia, e Metzger, che sfruttavano l’acqua pura del canale Torino e vennero premiati con la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Torino nel 1898.

    Per scoprire l’ultima tappa del tour torniamo in via Cibrario e ci fermiamo al numero 50 alla Gelateria La Tosca che nasce da una lunga tradizione di mastri gelatai. Il signor Riccardo con il fratello, anch’egli gelatiere a Torino, fa parte della seconda generazione, perché i genitori erano nel mercato del gelato dal oltre trent’anni. Un sistema di refrigerazione a vasche rotanti per una temperatura più uniforme e prodotti freschi locali di alta qualità selezionati con cura nel territorio garantiscono un’esperienza golosa. Oltre alle creme e i gusti inventati dal maestro gelataio assaggiamo anche i gelati gastronomici che ci incuriosiscono. Il gelato al Grana con flavour di sedano accarezza il palato! Il signor Riccardo ci racconta che negli ultimi 20 anni sono cambiati i gusti alimentari, ma è cresciuta l’attenzione del consumatore non solo verso la lista degli ingredienti, ma anche le provenienze.

    Il press tour si conclude con un pranzo gourmet presso Eataly Lingotto dove scopriamo il progetto Menu for Change, la prima campagna internazionale di Slowfood che lega il cambiamento climatico alla produzione e al consumo di cibo.

    Come ho raccontato questa food experience?

    A parte questo articolo nella sezione ‘Alla ricerca di storie’ e il live tweeting su Twitter durante lo svolgimento della giornata ho creato alcuni racconti visual declinati su tool e platform per comunicare sui social o embeddare sul sito. Vediamoli insieme:

    • Steller uno sfogliabile per narrare attraverso testo + foto + video ad un pubblico internazionale, oltre che nazionale (ecco il link https://steller.co/s/7z6jpZSsBR9). Trovate molti appassionati di food, oltre a food blogger internazionali.
    • Series di Medium sfogliabile all’interno della piattaforma di blogging con utilizzo di testo e foto. Ho creato due storie distinte (tour e pranzo a Eataly Lingotto e qui i link: https://medium.com/series/9cf584749a3e e https://medium.com/series/2df28e544b53)
    • Sutori una piattaforma di narrazione che consente di aggregare contenuti in alberatura. (ecco il link https://www.sutori.com/story/un-press-tour-a-torino#.Wp_FGlmgIaE.google_plusone_share) Sto testando questa piattaforma e cercando di capire come utilizzarla al meglio.

     

    Di seguito una raccolta di scatti del press tour.

     

     

     

  • Il fascino di un’epoca – Incontro con Silvio Gaspardo

    Durante un viaggio a Pordenone un caro amico, Gianni Barbon del coworking Mod-o di Cordenons, mi ha fatto conoscere una bottega d’epoca di gran fascino. Fin dal 1946 Gaspardo ha vestito tante generazioni di pordenonesi, accompagnandoli nei momenti informali e in quelli più importanti della vita. Moda maschile di alto livello e qualità dall’intimo alle camicie e alle cravatte di ogni foggia e colore.

    Sotto i portici del centro il negozio conserva la porta originale del 1951 e due grandi vetrine che accolgono i clienti.  Il racconto prende spunto proprio dalla ristrutturazione che Silvio, il proprietario, mi narra con dovizia di particolari. Scopro allora che i lavori sono stati seguiti proprio da Gianni che si occupava con la moglie di quest’attività e che la scelta di mantenere l’entrata originale è frutto di una cura dei particolari, del desiderio di mantenere inalterata la memoria del passato.

    Il passato è una storia di famiglia che vede il giovanissimo Silvio entrare in bottega nei primi anni ’70 all’inizio dell’estate in cui era stato espulso dalla scuola media.

    Non voglio vederti a spasso tutta l’estate. Da lunedì verrai in negozio a collaborare e in autunno, oltre a lavorare, ti iscriverai alla scuola serale per prendere la licenza media.

    Il padre, il signor Umberto, decide d’investire sul figlio che a quell’epoca era un po’ alternativo con i capelli lunghi e le collanine e di tramandare la sua passione per la moda maschile che durava già da molti anni.

    Aveva infatti iniziato a lavorare presso alcuni negozi d’abbigliamento della  città tra le due guerre e dopo la liberazione aveva deciso di mettersi in proprio, aprendo l’attività nella Contrada dove si trova ancora oggi. 

    Silvio prosegue l’attività familiare insieme alla moglie e festeggia nel 2016 i settanta anni del negozio, traguardo a cui dedica il libro “E’ finita un’epoca- la mia vita da commerciante“.

    Una personalità poliedrica, quella di Silvio, che oltre ad essere esperto di moda maschile, si avvicina dal 2007 ai cammini di lungo chilometraggio e alla scrittura tanto da pubblicare racconti, esperienze di viaggio (libri sul Cammino di Santiago) e  fiabe. Un commerciante- scrittore che è riuscito a mantenere ed esaltare i valori della famiglia, arricchendoli di nuovi stimoli e interessi.

    Il libro, di cui mi fa dono, non è una saga familiare, ma un viaggio nel tempo attraverso le ditte fornitrici e le storie dei loro rappresentanti,  le botteghe limitrofe al Gaspardo, i negozi che ‘si trovavano in corso’, una fotografia della Pordenone degli anni ’60-’70 attraverso gli occhi e i ricordi di Silvio.

    Ed ecco apparire il ritratto del sig. Viani della ditta Erredieci Cravatte di Milano che arrivava a bordo di una Ford color marrone

    Che passione ci metteva il signor Viani nel proporci la merce! Certo usciva dal negozio più che soddisfatto, visto che tra una linea e l’altra comperavamo almeno venti dozzine a stagione.

    oppure il signor Sinigallia dell’omonima Camiceria di Motta di Livenza che

    Vestito elegantemente all’ultima moda, arrivava con la sua bellissima Porsche blu

    I ritratti si susseguono e ci ritroviamo in un mondo fatto di gentilezza e di tradizioni, un mondo che non esiste quasi più se non nelle botteghe storiche che, a volte, appaiono fuori dal tempo. Come afferma Silvio nel libro si tende ad essere tutti omologati e grazie alla grande distribuzione e ai franchising a non distinguersi: tutti con le stesse vetrine, con gli stessi prodotti e con poca fantasia e creatività.  A proposito di tradizioni a pagina 53 scopriamo, ad esempio, che il sig. Umberto amava

    il giorno di San Sebastiano, 20 gennaio, in cui si raccoglievano le violette per regalarle alle donne del cuore e si raccomandava alla Fioreria Trentin per averle in negozio.

    Di grande fascino il capitolo n. VII che è dedicato ai ricordi di bottega, quando Silvio e il padre andavano a fare le vetrine di Natale e preparare gli addobbi alla sera dopo cena, quando allestivano le vetrine con fantasia e anticonformismo  e infine le frasi e ‘detti’ del padre Umberto che riecheggiano ancora nella bottega.

    Noi commercianti, dopo anni di esperienza con i clienti, diventiamo un poco psicologi.

     

     

     

    Fonte: “E’ finita un’epoca – La mia vita da commerciante” – autore Silvio Gaspardo – editore Libreria Al Segno – ottobre 2016

  • Incontro con Gino d’Luiset

    Nella ricerca di botteghe storiche ho conosciuto Luigi Casetta detto Gino d’Luiset, titolare insieme ai figli dell’Agrisalumeria Luiset di Ferrere (AT). La storia parte da Torino e più precisamente dal negozio di via Principe Amedeo, ma dopo una prima visita ho preso contatto con l’azienda nella provincia di Asti dove sono stata accolta dal sig. Luigi.

    Con il sorriso mi ha accompagnato alla scoperta dell’azienda dal bosco dove vengono allevati i suini allo stato brado, al piccolo macello dove lavorano gli animali, ma anche per conto terzi, alla produzione di prodotti tipici piemontesi come il salame cotto, ma anche il prosciutto crudo, il cotto, il salame, ecc.

    La sua storia mi ha incuriosito e si può riassumere in tre parole chiave: coraggio, determinazione e competenza. Ma partiamo dall’inizio: una famiglia di allevatori da sempre specializzati in bovini, ma anche coltivatori con vigne e terreni agricoli.

    Nelle campagne si diceva che per sopravvivere bisogna avere un pò di tutto, dal vigneto all’allevamento

    Già il nonno e il padre avevano terreni fino al confine di Alba dove si occupavano dell’allevamento di bovini e gestione della terra. A 18 anni Gino andava nei campi con il piccolo trattore e un giorno, viaggiando sulla sua 500 fiammante, decide di dare una svolta alla sua vita ed alla sua professione: lascia l’attività di famiglia per andare a lavorare in salumificio vicino a casa.

    ‘Il mestiere bisogna rubarlo!’ afferma con decisione. Ha lavorato come operaio per almeno 20 anni, andando a macellare presso altri allevamenti.

    A 40 anni ha cambiato nuovamente la sua vita e si è messo in proprio con un pizzico di coraggio imprenditoriale, avviando un’azienda agricola specializzata nell’allevamento dei suini  – dall’allevamento fino alla produzione. Nel paese di Ferrere di 1500 persone era il quinto salumiere; un mestiere tipico del territorio.

    Era un’azienda agricola dal produttore al consumatore e proponeva i suoi prodotti in 2 mercati settimanali nella provincia per farsi conoscere fuori zona ed ampliare la clientela. ‘Dall’autonegozio siamo passati ad aprire un negozio fisico ad Alba e poi a Torino‘ mi informa Gino con orgoglio. Il negozio di Alba è ormai una realtà consolidata da più di 15 anni e quello ubicato in centro a Torino almeno una decina.

    L’azienda a Ferrere nasce circa 5 anni fa ed è dotata delle ultime tecnologie quali, sistemi per il recupero dell’acqua calda per i motori, il fotovoltaico per l’energia, fitodepurazione per le acque reflue, etc.

    ‘Siamo andati presso altre aziende a studiare e abbiamo cercato di rispettare la tradizione utilizzando le tecnologie più avanzate con un occhio all’ambiente’  – precisa Gino.

    Anche l’allevamento rispetta gli animali che vengono seguiti nella crescita fino alla macellazione e produzione.

    I suini sono incroci con la senese (non esiste più una razza autoctona ad esempio quella Cavour, anche se si sta studiando all’università di Torino la possibilità di ricrearla grazie agli incroci) vengono allevati parte allo stato brado nei boschi e parte in stalle. In stalla crescono più velocemente, ma hanno una carne meno consistente a differenza degli animali allevati nei boschi che hanno carne più asciutta e gustosa, soda.

    Gino mi fornisce dei parametri che non conoscevo in merito al peso dei suini ed all’età: 170-200 kg in Italia per Parma 9 mesi come minimo mentre estero 140 kg maiale di solo 6 -7 mesi.

    Nella loro azienda tutti i suini superano l’anno d’età sia che siano allevati in stalla sia allo stato brado. ‘Sono 15 anni che abbiamo studiato mangime che non faccia crescere troppo velocemente. Una ricetta segreta – fiocchi di fave al posto della soia. La differenza si nota dal gusto. Provare per credere!‘- mi confessa Gino.

    La stagionatura è un momento importante ed avviene in cantina come una volta. Vedo appese cosce di grandi dimensioni che appartenevano a scrofe di 3 quintali, cosce che devono stagionare ben 3 anni per raggiungere l’eccellenza. ‘Tutti i prosciutti crudi devono stagionare almeno 2 anni. Un lavoro di grande maestria’. Una produzione tipica della zona è il salame cotto che deve cuocere una notte intera, un prodotto che sta per ottenere Igp.

    Il nome dell’azienda m’incuriosisce, ma è presto svelato il mistero: Luiset deriva da Luigi  e più precisamente Luigi Casetta, il nostro protagonista.

    Il nome Luigi deriva dal nonno di mio nonno, perché in Piemonte era tradizione che il primogenito ereditasse il nome del nonno

    A San Ricco di Montà il cognome Casetta era molto frequente così come il nome di battesimo Luigi. Ai tempi c’erano ben 3 Luigi tanto che il parroco intervenne per consigliare tre ‘stranomi’ , ossia soprannomi per differenziare i bambini battezzati.

    La storia di Gino prosegue con i figli che seguono le orme paterne, unendo la tradizione alla tecnologia nel rispetto della natura. La stessa passione che caratterizza tante aziende e botteghe storiche italiane riscoperte dalle nuove generazioni.

     

  • Intervista a Christina Zacher

    Intervista a Christina Zacher della Zacher Cappellaio di San Candido

    Ho conosciuto la storica bottega Zacher per una combinazione fortunata: ero a San Candido per lavoro e, vagando per la cittadina alla ricerca di emozioni, ho notato un casa di color giallo ocra con un’insegna che mi ha immediatamente rapita: Zacher Cappellaio. Mi sono messa a sognare di Bianconiglio, del Cappellaio Matto e sono entrata nel mondo fantastico di Alice nel Paese delle meraviglie.

    Ricordate il personaggio The Mad Hatter inventato da Lewis Carroll e apparso per la prima volta nel 1865? La storia della bottega e soprattutto del marchio Haunold risale a molti secoli prima, addirittura al 1560.

    Entrata nella bottega che è attigua allo storico laboratorio sono stata accolta da Christina Zacher e da subito mi sono innamorata della loro storia. Non ho resistito e ho deciso d’intervistarla per voi.

    Quando è nato il laboratorio e qual era la produzione? Era una produzione tipica della vallata di San Candido o il capostipite della famiglia Haunold ha avviato per primo questa lavorazione?

    La produzione di feltri di lana una volta era abbastanza diffusa, sia nelle zone alpine che nella pianura, ma proprio nell’Alta Val Pusteria, specialmente a Sesto, c’era un centro importate di Cappellai e produttori di feltri.

    La nostra famiglia ha adattato ed interpretato le tradizioni e lavorazioni antiche per sviluppare proprio questo tipo di pantofola tutta in lana con la suola grossa infeltrita.

    Attenzione, non siamo la famiglia Haunold, ma la famiglia Zacher che produce i prodotti Haunold (nostro storico marchio sotto il quale rivendiamo i nostri prodotti)

     

    Ho letto che il feltro è lana cardata di pecora, ma si può utilizzare anche pelo di lepre, coniglio, capra e addirittura cammello. Quale tipo di lana utilizzate? Lana di animali allevati in Italia? 

    Noi usiamo esclusivamente 100% pura lana vergine di pecora (non ci sono altre aggiunte). Le nostre lane arrivano o dal Tirolo (in Pusteria abbiamo poche pecore, compriamo tanta lana dalla Val Venosta e dalla Valle di Senales. Provate a vedere su https://www.youtube.com/watch?v=XZwjo3n2r8s Vallelunga e https://www.youtube.com/watch?v=E2nLKuMsBkQ  Minuto 11,20 ca. valle di Senales e nostra produzione

    Quanto è variata la produzione dal passato? 

    Il concetto è rimasto invariato; usiamo ancora una macchina storica (il cosiddetto follone che nostro bisnonno ha comperato nel lontano 1901).

    Ricorda aneddoti legati alla bottega?

    Anche troppi da raccontare…

    Ho notato due marchi Zacher e Haunold, qual è nato prima e come si differenziano?

    È nato prima il marchio Haunold (nome tedesco della Rocca dei Baranci, le montagne che caratterizzano San Candido) lo hanno sviluppato intorno al 1960. Vendiamo i nostri prodotti (che sono anche destinati alla rivendita) sotto quel nome.

    Il marchio Zacher è più recente e si riferisce al nostro negozio dove uno trova la vendita diretta dei prodotti Haunold (che produciamo sempre noi), articoli che facciamo fare in delle piccole.  Bottege e diversi oggetti in feltro che produciamo noi e che si possono avere esclusivamente nel nostro negozio

     Qual è la vostra produzione attuale? 

    Produciamo feltri follati artigianali, in pura lana dai quali facciamo pantofole in feltro, suole, svuotatasche, copri panche, oggetti per la casa, diverse custodie, ecc.

    Ora una domanda sul Cappellaio ‘matto’, perché si definiva così?

    Non il cappellaio stesso si definisce cosi ma è un fatto storico che tanti cappellai (che facevano feltri in pelo di lepre) andavano fuori testa perché trattavano i peli con il mercurio.

    Incuriosita dalla storia del feltro ho approfondito su Wikipedia e scoperto anche che:

    Nella leggenda l’invenzione del feltro viene attribuita a san Giacomo apostolo, fratello di san Giovanni evangelista. Il santo, che era un pescatore, mal sopportava le conseguenze dei lunghi spostamenti, che allora venivano fatti a piedi, richiesti dall’opera di predicazione.

    Per proteggere le piante dei piedi provò ad imbottire i sandali coi batuffoli di lana che le pecore, nel pascolare, lasciavano attaccati ai cespugli spinosi. Si accorse che lo strato di lana pressato dal suo peso e bagnato dal sudore si induriva e trasformava in una falda compatta. Da qui l’invenzione del feltro. 

    Le prime corporazioni di cappellai lo consideravano il loro protettore; nell’iconografia san Giacomo è rappresentato come un pellegrino che porta in testa un cappello a larghe tese, ovviamente di feltro, ornato con una conchiglia.

    ‘E’ verissimo, infatti, anche mio nipote si chiama Giacomo.  Il suo onomastico è il 25 luglio’ – mi racconta Christina.

  • Intervista a Giovanni Tamburini

    Intervista a Giovanni Tamburini della salsamenteria Tamburini di Bologna

    Se parliamo di cibo e passiamo da ‘Bologna la Grassa’ la salsamenteria storica Tamburini, situata in via Caprarie, è tappa obbligata. Seduti nel bistrot attiguo alla bottega, sorseggiando un profumato bicchiere di lambrusco iniziamo a chiacchierare con Giovanni Tamburini e ci immergiamo nell’atmosfera di Bologna dei secoli scorsi. Sentiamo le voci del mercato che nell’800 sorgeva in questo angolo di città, vediamo gli addetti alla bottega che lavano le carni nel torrente vicino e che le appendono ai ganci ancora visibili sopra le nostre teste.

    All’improvviso un cliente della Corea ci interrompe, chiedendo una foto al nostro ospite e, come per magia, il passato e il presente si fondono senza più confini geografici. Dopo le foto all’interno ed all’esterno della bottega e la promessa di scriverci per mail, iniziamo l’intervista vera e propria.

    Prende vita una lunga narrazione con dettagli personali e professionali di questo ‘mastro’ bolognese, la cui passione e professione sono un tutt’uno con la sua vita e la storia della sua famiglia, tra le più antiche di Bologna.

    Mi parla subito dell’amicizia storica con Gabriele Cremonini con cui ha scritto il libro che mi regala ‘ Maiali si nasce salami si diventa’ edito da Pendragon. Cremonini era stato giornalista e narratore (scomparso nel 2015), aveva scritto per il teatro, la tv, la radio, la pubblicità e su quotidiani e periodici, aveva lavorato con Bibi Ballandi nell’organizzazione di eventi televisivi, per i varietà di Gianni Morandi, di Adriano Celentano, di Fiorello e stretto collaboratore di Lucio Dalla.

    Nell’intervista scoprirete un mondo di sapori, di arte e tradizione antica che abbiamo il dovere di tramandare alle generazioni future.

    Tamburini è un ‘cultore’ delle tradizioni di Bologna e se ne fa portavoce con il proprio figlio che ha ereditato quest’arte e con la Mutua Salsamentari 1876 di cui è stato presidente dal 1996 al 2013.

     

    Qual è la storia dei Tamburini e della bottega storica?

    “Sono bolognese e sono nato a centro metri da bottega storica che è attiva ormai da 3 generazioni.

    Dove sorge la bottega si teneva il mercato denominato Le Pescherie vecchie, il cui nome deriva dal consumo molto diffuso di pesce a Bologna (soprattutto cefalo) che arrivava in 48h da Chioggia lungo i canali che attraversavano tutta la città. Un canale era proprio vicino alla bottega ed era utilizzato per lavare le carni. “

    Come si legge nel libro ‘Maiali si nasce salami si diventa’: ‘Nella bottega di Tamburini di via Caprarie, a Bologna, si lavoravano 60 maiali al lunedì e 60 maiali al giovedì. Sembrava una baleniera: in 2 ore tutte le carni venivano tagliate per fare salami, mortadelle, cotechini. Sul limite del laboratorio stavano gli anemici clienti, in attesa di acquistare il cosiddetto quinto quarto, cioè tutte le carni rosse che venivano portate via in pochi minuti da persone che oggi verrebbero additate al minimo come vampiri.’ (pagg.71-72)

    La storia dei Tamburini è strettamente legata a quella della famiglia Benni, nobili bolognesi che nel 1860 circa erano proprietari della bottega e amministratori del patrimonio del Principe Baciocchi, marito di Elisa Bonaparte. A Bologna si contavano 200 salumifici nel 1885 e la mortadella era esportata in tutto il mondo.

    I fratelli Angelo e Ferdinando Tamburini, lavorarono presso la bottega dei Benni, da decenni punto di ritrovo dei gourmet dell’epoca finché nel 1932 rilevarono l’attività.

    Non ero ‘destinato a bottega’, perché mio padre era uno sposo tardivo e aveva un fratello, Angelo con 10 nipoti.

    La bottega era gestita da mio zio che amava vestirsi da sarti famosi, ma si sporcava le mani in azienda, da mio padre che, invece, potrebbe essere definito un viveur dei tempi e dalla zia Maria (rimasta signorina) che si occupava dell’amministrazione. Come ho detto, lo zio aveva 10 nipoti, ma nessuno aveva dimostrato l’attitudine a seguire le orme dei parenti ed entrare in bottega. Finito il servizio militare mi trovai con i genitori e zii più anziani e iniziai a dare una mano nella salsamenteria. Era l’inizio del 1973, poi i parenti si ritirarono e mi trovai da solo nella gestione dell’attività dal 1977.  Essendo stato in bottega nei primi 5 anni di vita, ho assimilato, senza volere, tutti i ‘saperi’ utili alla professione e mi sono mosso da subito con disinvoltura.”

    Laureato in Economico di Scienze Politiche con un occhio alla tradizione e un occhio alla cultura gastronomica inizia a studiare da zero la rinascita del mercato come attrazione con il supporto anche di Massimo Montanari ( docente ordinario di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna ed esperto mondiale di Storia dell’alimentazione)  e Giancarlo Roversi (giornalista e scrittore, fondatore e direttore di riviste di cultura, turismo ed enogastronomia, dedicato alla ristorazione e alla buona cucina) avevano studiato il rapporto del cibo con il territorio bolognese.

    Oltre a essere salsamentari la famiglia è stata anche di produttori?

    Siamo stati prima produttori e abbiamo la bottega storica da 3 generazioni. Dove è stato aperto il bistrot oltre i banchi frigo si vedono ancora i ganci dove appendevamo la carne e i salumi.”

    E’ cambiato il gusto/consumo dei consumatori che frequentano la bottega storica? 

    Possiamo definire i nostri consumatori ‘Esperti’. Già 100 anni fa servivamo tutta la società bolognese dai nobili e ricchi con consumo al taglio e meno abbienti con banco di 2a (cascami) comunque fresca perché nella bottega, oltre ai salumi, si vendeva anche la carne fresca. All’epoca non esisteva la larga distribuzione né tantomeno i frigoriferi. Il maiale veniva macellato d’inverno e i macellai veniva il 4 ottobre, festa del patrono San Petronio e andavano via per Pasqua.

    Sono cambiano i gusti ed il consumo, perché è cambiata la società (meno lavori manuali e quindi minore esigenza di consumare grandi quantitativi di carni e grasso per scaldarsi). Durante la guerra i tedeschi venivano a macellare a Bologna, ma non abbiamo mai avuto problemi. Dopo la guerra i prezzi erano abbastanza bassi, ma il guadagno era assicurato dai volumi e dal desiderio di uscire dalle ristrettezze del periodo.

    Veniamo agli anni 50 ed esattamente al ‘58 non esisteva la mensa nelle fabbriche e le donne avevano iniziato a lavorare. Lo zio è il primo a inventare la rosticceria – ‘piatti pronti per ingannare il marito’. Negli anni ‘80 della Milano da bere Tamburini organizza i primi catering con grandi buffet a domicilio. Nel 1995 ha avuto intuito di cogliere una nuova esigenza del mercato: le persone non andavano più a mangiare a casa, ma avevano necessità di un pranzo leggero da consumare nella pausa pranzo. Prende vita quindi l’idea del self service, ossia una rosticceria leggera per pausa pranzo. Dal 1985 iniziano anni di grave degrado urbano e si assiste alla diffusione sempre maggiore della grande distribuzione che pare segnare la fine delle botteghe storiche.”

     Dopo un periodo di crisi nel 2005 apprendiamo che Tamburini prende la licenza per aprire il bistrot che nel giro di un anno si afferma come un punto d’incontro della movida bolognese. Per il futuro ci sono già nuovi progetti come aprire una sala sotto alla bottega, locale adatto a cene e ad ospitare band musicali. (Tamburini suona in una band)

    Quali sono i personaggi storici passati dalla sua bottega?

    “Francis Ford Coppola che era venuto in città per conoscere il culatello.” 

    Foto appese in bottega raccontano della vita di Bologna e tra queste possiamo notare proprio quella citata da Tamburini.

    Eventi e momenti importanti della bottega?

    Natale Tamburini è stato per anni il momento clou con il coinvolgimento di un musicista che suonava dal vivo. 18 anni fa abbiamo creato il premio Ghost Buster di scoprire talenti del giallo. Ma sono solo degli esempi, potrei citarne molti di più…”

    Quali razze storiche sono ancora utilizzate oggi in Emilia? Sa perché era stata abbandonata la razza mora romagnola?

    Dagli anni ‘90 la congrega del buon salame si occupava di ricerca di razza estinte. Ancora nell’800 il maiale era della razza appenninica che era meno grassa. Tra le razze autoctone locali esisteva la ‘mora romagnola’ che ha rischiato di estinguersi a causa della bassa resa. Stesso destino aveva la ‘cinta senese’ che era piccolo e muscoloso con una specie di gilet nero del maiale (vedi dipinto Buongoverno nella sala comunale di Siena). Erano razze di sapore più intenso più simile al cinghiale con crescita lenta poco adatte all’allevamento intensivo.

    Si usava dire che all’epoca le famiglie ‘investissero’ in maiale, perché ogni famiglia allevava in proprio un maiale da macellare e produrre i salumi.  La ricchezza di Bologna era dovuta all’epoca non tanto all’allevamento del maiale quanto a quello del baco da seta. Aveva infatti mantenuto per molti anni il monopolio della produzione della seta in Europa e le costruzioni dei palazzi nobiliari erano legate proprio a questa ricchezza.

    Alla fine del secolo XVII esistevano a Bologna 119 mulini da seta. Partendo dai canali l’acqua raggiungeva le cantine di interi isolati e, sfruttando la pendenza del terreno, alimentava con una distribuzione a rete centinaia di ruote idrauliche di torcitoi e filatoi. Alla fine del secolo XVI la produzione serica dava da vivere a circa 24.000 persone su 60.000 abitanti e i prodotti venivano esportati sul grande mercato internazionale in Francia, nelle Fiandre, in Germania, in Inghilterra. Il prodotto che si afferma maggiormente a Bologna è il velo da seta. Di questo tessuto abbiamo numerose testimonianze tra cui una piccola galleria di dipinti. Un dipinto raffigurava una nobile con allacciato al capo un velo bianco tenuto fermo con un filo di ferro. Il velo di seta è bianco, sottile e trasparente. La seta era un prodotto molto costoso che si potevano permettere in pochi, solo i nobili, un esempio è la famiglia dei Bentivoglio. La supremazia della famiglia Bentivoglio iniziò nel 1401 dopo la cacciata del Legato Pontificio, quando Giovanni I Bentivoglio si alleò con i Visconti di Milano e divenne Signore di BolognaGonfaloniere di Giustizia e si attestò con Sante Bentivoglio  fino al 1462 e soprattutto con Giovanni II Bentivoglio fino al 1506.

    Con la cacciata dei Bentivoglio, Bologna rimase per quasi tre secoli (fino al termine del Settecento) stabilmente inglobata nello stato della Chiesa.

    Conosce leggende legate alle razze storiche? 

    C’è una leggenda legata alla mora. Si racconta che un malvagio possedesse una coppia di mora e non volesse farli accoppiare con lo scopo di far estinguere la razza. Gli americani con l’occupazione rapirono adamo ed eva e li portarono in America per cui i discendenti sono nati in America e la razza non si è estinta. 

    La legatura dei salumi con iuta era una pratica diffusa nell’800 e fino a quando? 

    La produzione è ancora in gran parte manuale. Importante il ruolo dell’uomo soprattutto nel riconoscere le carni. Un’altra fase che è ancora manuale è la legatura.

    Che cosa ci può dire in merito alle spezie utilizzate nella produzione dei salumi?

    La vicinanza di Venezia con i canali permetteva di avere spezie a prezzi interessanti, spezie che arrivavano dall’India. Si usavano comunque come base sale e pepe. Per reperire le spezie utili alla produzione della mortadella Tamburini si appoggiò all’azienda locale Sant’Unione. Ad esempio per la produzione del salame si usavano sale, pepe nero, vino bianco. Si mettevano in un canovaccio bagnato nel vino con aglio e poi strizzato. L’uso del pistacchio nella mortadella era stato introdotto solo da un produttore per andare incontro al gusto dell’Italia centrale. 

    Il tempo scorre veloce. Dal nostro viaggio nel passato abbiamo portato con noi la passione per le tradizioni più vere del nostro territorio. Il viaggio prosegue nella magia dei sapori con altri protagonisti del food. Seguiteci per scoprire insieme altre botteghe ed altri mestieri antichi in giro per l’Italia.

  • Incontro con Maurizia Castelli

    Una sfoglina per passione: Maurizia Castelli

    <<Ero destinata ad un lavoro d’ufficio e l’ho seguito per anni, poi a causa della crisi economica ho riscoperto le mie radici più vere, il mestiere che avevo nel sangue fin da bambina>>.

    Inizia così la storia di una sfoglina, Maurizia Castelli, che ho conosciuto all’inizio del progetto, grazie ad un amico comune. Non una bottega storica, ma una passione ritrovata per le tradizioni del territorio, per le proprie radici più profonde. I suoi genitori avevano una trattoria storica sulle colline di Bologna, dove da sempre la pasta si tira con il mattarello.

    Il destino di Maurizia non era inizialmente legato alla ristorazione tanto che ha lavorato per anni negli uffici di studi odontoiatrici, ma, a causa della crisi e grazie ad un’amica della nota famiglia bolognese, Chiari, ha iniziato a tirare la sfoglia come sfoglina stagionale.

    Il destino era in qualche modo già segnato: nel periodo di novembre appena prima delle vacanze natalizie si era liberata una posizione da sfoglina e così è  iniziata una nuova avventura che segnerà tutta la sua vita professionale.

    << Ho imparato lavorando fino a 12 e 14 uova alla volta con una sfoglia lunga quasi 2 metri. Io ero a l’oca, perché fino ad allora facevo la sfoglia in casa con le donne della mia famiglia, perché i tortellini sono nel nostro DNA>>.

    Verso aprile 2013 rileva un ramo d’azienda della famiglia Chiari e nasce ‘Bologna laboratorio del gusto‘, quindi una nuova svolta da dipendente a imprenditrice.

    <<Mi sono ritrovata imprenditrice al di là delle mie volontà.>> Si circonda di altre sfogline e in 7 donne affrontano il mercato.

    Il coraggio tutto femminile la porta a dedicarsi a questo nuovo lavoro che diventa la sua vita, riscoprendo le tradizioni più antiche.

    <<Per i tortellini usiamo la materia prima migliore secondo la ricetta originale e un pizzico di passione che è l’ingrediente segreto>>.